C’è chi in amore non sente, pesa.
Pesa ogni parola, ogni silenzio, ogni sbavatura dell’altro. E quando la bilancia si inclina, secondo lui, è il segnale per andarsene, farsi eroe della propria fuga.
Io, invece, non contavo. Amavo.
E mentre lui faceva i conti, io costruivo un futuro.
Il risultato? Una storia finita non per mancanza d’amore, ma per eccesso di calcolo.
Buona lettura.

Durante la nostra relazione, lui parlava spesso di una bilancia. Una bilancia immaginaria su cui, ogni giorno, posava i sassolini delle cose belle e delle cose brutte. E quando il piatto del “troppo” si abbassava, quando per lui il peso del disagio superava quello della gioia, era il segnale: era ora di andare.
E io mi sono chiesta, tante volte, dove si trovi questa bilancia nei cuori delle persone. Se sia una struttura interiore che alcuni coltivano per protezione, una sorta di contabilità emotiva per non perdersi. O se sia solo un modo per giustificare un disamore che c’era già, silenzioso, da tempo.
Nel mio cuore, la bilancia non ha mai avuto spazio. Le cose brutte, nel mio modo di amare, non si accumulano: si trasformano. Non sono pietre da tenere in tasca, ma ombre da guardare con luce nuova. Ho sempre creduto che l’amore sia uno spazio di trasformazione, non un tribunale dove si pesa il bene e il male.
Con il tempo, però, ho cominciato a vivere in funzione di quella bilancia. Ogni mio gesto, ogni parola, ogni silenzio… tutto diventava una possibile zavorra. Non ero più libera. Non ero più spontanea. Vivevo nella paura che ogni piccolo errore sarebbe stato contato, registrato, posato su quel piatto. Ed è così che l’amore, che dovrebbe liberare, mi ha chiusa in una gabbia invisibile: la gabbia del giudizio.
Ma nessuno è sempre “amabile”. Nessuno è immune all’istinto, alla stanchezza, alla rabbia. La verità è che nelle relazioni si scivola, si inciampa, ci si mostra fragili. E in quei momenti ho visto crescere il suo distacco. Perché ogni mia imperfezione, ogni cedimento umano, sembrava per lui un motivo per prendere le distanze.
Eppure io lo amavo. Lo amo ancora. Forte. Dolorosamente. E tutto ciò che per lui pesava, per me non aveva mai avuto consistenza. Non ho mai avuto un cesto da riempire, non ho mai contato le sue mancanze. Forse è vero: stavamo vivendo due amori diversi. Il mio era accoglienza, il suo era misura. Il mio era fusione, il suo era equilibrio da mantenere. Il mio era fede cieca, il suo era cautela.
Forse semplicemente non mi amava. O forse mi amava in un modo che non sapeva contenere tutto ciò che ero. Forse la passione che sentivo, quella fusione che per me era vera, era solo mia. Ma io lo vedevo, lo vedevo davvero. Con i suoi difetti, con le sue paure, con i suoi silenzi. E lo volevo comunque accanto a me. Così com’era.
Adesso sento il peso. Ma non quello della bilancia. Quella mi faceva solo male, mi faceva sentire sotto osservazione. No, ora sento il peso dell’assenza. Il peso di immaginare un futuro senza la sua mano nella mia. E questo mi spezza, mi lacera, mi consuma.
Forse, senza volerlo, ho preso un uomo e gli ho fatto indossare il vestito della mia idealizzazione. Forse ho amato un’immagine, ma l’ho fatto con sincerità. Non ho chiesto perfezione: ho chiesto solo di restare. E oggi capisco che non tutti riescono a stare dentro l’intensità di un amore profondo. Per alcuni, l’amore è un contratto. Per altri, è un abbandono totale.
Nel mio cuore, non esiste nessuna bilancia. Perché l’amore, quando è vero, non pesa. Non misura. Non giudica. L’amore si prende la mano, anche quando trema. Resta, anche quando fa male. Perché il dolore non è sempre una ragione per fuggire. A volte è solo la porta da attraversare per conoscersi davvero.
E allora, oggi, mentre piango e mi sento svuotata, una sola certezza mi resta: che l’amore autentico non ha bisogno di conti. Non si basa su quante volte uno cade, ma su quante volte si sceglie di restare. E io, in quel restare, ci credevo. E ci credo ancora.
Morale della favola?
Lui aveva una bilancia. Io avevo un cuore.
Peccato che sulla sua bilancia pesasse tutto tranne l’amore: le mie insicurezze, i miei silenzi, i giorni storti. Ogni cosa finiva sul piatto sbagliato.
Ma quando qualcuno ti misura, ti sta già riducendo.
Col tempo ho capito: non ero io a essere “troppo”.
Era lui a essere poco.
Poco disposto, poco profondo, poco presente.
Aveva solo il libretto delle istruzioni per non rovinarsi la giornata.
E io, per fortuna, non seguo istruzioni.
Non ero “troppo”. Ero solo troppo vera per la sua idea di relazione a calorie controllate.
Che resti pure leggero.
Io scelgo l’amore che sa reggere il peso di una donna intera.
Moral of the story?
He had a scale. I had a heart.
Too bad everything but love weighed on his scale: my insecurities, my silences, the off days. Everything ended up on the wrong side of the balance.
But when someone measures you, they’re already shrinking you.
Over time, I understood: I wasn’t “too much.”
He was too little.
Too unwilling, too shallow, too absent.
He only had the manual for not ruining his day.
And luckily, I don’t follow manuals.
I wasn’t “too much.” I was just too real for his calorie-counted idea of a relationship.
Let him stay light.
I choose the kind of love that can carry the weight of a whole woman.