
Da piccola avevo una bici, una Graziella rosa. Non di quelle pieghevoli da zia depressa, no. Una vera Graziella: solida, fiera, con il manubrio a corna di bue, il sellino duro come la vita e quella scintilla rosa Barbie che ti faceva sentire una principessa del paesino, anche se avevi i denti storti e le ginocchia sempre sporche. Era il mio destriero a due ruote, e io mi sentivo invincibile. O almeno, così credevo.
Accanto a me, la mia migliore amica: due anni in più, uno spirito allegro e gentile, e un corpo che non conosceva il concetto di “taglia unica”. Io un rametto di rosmarino, lei un morbido abbraccio su due gambe. Creature diversissime, incollate da un affetto incrollabile e da una certa tendenza alle scelte disastrose. Insieme, sempre. Inseparabili. Complici perfette con una spiccata tendenza a cacciarsi nei guai.
Quel giorno, sottovalutando la forza di gravità come solo i bambini sanno fare, ebbi un’idea brillante: “Sali. Ti porto io”.
Sul portapacchi, ovvio.
Un oggetto che a malapena reggeva il cestino con dentro il mio Tamagotchi morente e un panino col salame, ma che io quel giorno avevo eletto a trono della fiducia.
Lei non ha esitato: una gamba, poi l’altra, e si è seduta. O meglio, si è incastrata. Come un cassetto IKEA montato male: traballante ma irrimediabilmente lì.
Ho iniziato a pedalare, convinta di poterla portare in giro come se niente fosse. E i primi due metri sono andati. Poi la fisica si è svegliata dal pisolino e ha preteso il conto. Zig a destra, zag a sinistra. Il manubrio sembrava posseduto, le ruote sembravano reduci da un aperitivo lungo, e noi sembravamo la controfigura ubriaca di una scena tagliata di E.T.. Solo che noi l’alieno non ce l’avevamo. E nemmeno il lieto fine.
“Ce la faccio!” gridavo, tutta determinazione e zero equilibrio. “Secondo me no,” rideva lei, con la calma zen di chi ha già capito che si finisce male ma vuole godersi il film.
Ogni metro era un nuovo livello di videogame: tra “forse ci riusciamo” e “oddio, ci schiantiamo”. Abbiamo attraversato il viale dei platani come Thelma & Louise, ma in slow motion e con molto più fiatone.
I vecchi sulle panchine scuotevano la testa, i cani abbaiavano, e il destino… rideva. Sghignazzava, direi.
Poi, inevitabile, il botto.
Un crash da manuale. Voliamo come sacchi di patate, rotoliamo come comparse mal pagate, atterriamo come dive dimenticate. Ginocchia sbucciate, gomiti doloranti, e dignità smarrita.
Ma poi, il miracolo. Ci guardiamo. E ridiamo.
Ridiamo come matte.
Ridiamo fino alle lacrime. Con i denti pieni di polvere, il fiato corto e l’anima ancora in volo. Una accanto all’altra, senza bisogno di parole.
Ridiamo perché siamo vive. E soprattutto, ridiamo perché siamo insieme. Doloranti, tremanti, impresentabili. Unite.
E in quella risata c’era tutto: la disfatta, la follia, l’amore, la sorellanza. Il “ti tengo anche quando cadi”.
Tornammo a casa come due reduci, zoppicanti e trionfanti, un’ immagine a metà tra Full Metal Jacket e Piccole Donne, eppure sembravamo due piccole eroine.
Ci disinfettarono con il mercurocromo – tintura miracolosa degli anni ’90, che ti faceva sembrare una veterana di guerra– ma la vera medicina era esserci ancora. Insieme, nonostante tutto. Anzi proprio grazie a quel tutto. Eravamo cadute ma nessuna di noi si era tirata indietro. Mano nella mano, con le ginocchia color fucsia e l’orgoglio delle guerriere sopravvissute, uscivamo di nuovo per il paese.
La bici era a pezzi. Noi? Sembravamo due semafori ambulanti, ma ogni passo dolorante era una dichiarazione d’amore. Ogni cicatrice una promessa:
Io ci sono. E io ci resterò.
Due mani strette pronte per la prossima avventura.
E anni dopo, mentre cercavo di capire dove fosse andata a schiantarsi la mia ultima relazione, mi è tornato in mente quel giorno.
La relazione era bella. Intensa. A tratti sembrava che il cuore ci avesse preso in pieno. Ma poi, com’era successo con quella bici, qualcosa ha iniziato a sbandare.
Zigzagavamo tra giorni pieni di luce e sere zeppe di silenzi. Ogni volta che pensavo “sta andando bene”, la ruota cedeva. E io lì, a stringere il manubrio con tutte le forze, convinta che bastasse pedalare più forte per non cadere.
Poi il botto.
E stavolta non ci siamo guardati. Non abbiamo riso. Nessuno ha portato il mercurocromo.
Dopo la caduta, lui si è alzato e se n’è andato. E io? Rimasta lì.
Polverosa, con le ginocchia dell’anima graffiate e quella frase che mi torna sempre in mente quando le cose belle finiscono troppo presto:
“Che occasione sprecata.”
A volte basterebbe così poco. Un sorriso invece di un muro. Una frase in più. Un “resto” invece di un “ciao”. Ma sai cosa ho capito grazie a quella caduta sulla Graziella?
Che chi resta con te quando sei a terra, chi ride anche mentre brucia, chi ti tiene la mano anche se non hai più un equilibrio, quello sì che vale.
Questa volta niente risate. Nessuna mano nella mano. Solo silenzio. Neanche una sfumatura di fucsia sulle sbucciature.
Un’assenza che faceva più rumore della caduta. E allora mi è tornata in mente quella scena con la mia amica. Il disastro. La risata. La cura. La presenza.
Io celebro chi resta. Chi inciampa con te e non scappa. Chi non fugge quando si rompe qualcosa, ma resta per vedere se si può aggiustare.
Chi ride, disinfetta. Chi complice e leggero ti dice ancora: “Quando si riparte?”
Se n’è andato. Io sono rimasta. Ginocchia sbucciate e quella fastidiosa certezza: che peccato.
Perché non è la caduta a fare paura. Lo è farla da soli. La differenza non la fa chi ti accompagna nei tratti lisci ma chi sa che l’amore vero è fatto anche di errori, rallentamenti, curve prese male. Fuoripista. E ginocchia rosso mercurocromo.
Meglio Iasciare andare chi se ne va. Perché chi fugge dalle cadute non avrebbe mai riso con me. Nemmeno da bambina.
Io continuo a pedalare. Traballante, ma convinta. Perché sì, ci sono i bottoni che saltano, le ginocchia che bruciano, i “che figuraccia” detti sottovoce.
Ma ci sono anche le persone che restano. Quelle che ridono con te anche nel fango.
Quelle che ti guardano con le ginocchia sbucciate e dicono:
“Che si fa, ripartiamo?”
E con loro – ci farei tutte le curve del mondo.