“Mi chiedevo: e se il problema non fosse l’amore, ma il fatto che la gente non sa proprio amare? Né un gatto, né un essere umano.
Adottano, salvano, ti chiamano “pasticcino”… finché non inizi a graffiare il divano.
Poi ti lasciano lì, sul ponte della loro immaturità, come un soprammobile che non si intona più al salotto.“

A marzo, mentre percorrevo con quello che allora chiamavo “il mio compagno” un lungo ponte sopra un lago, l’ho visto. Un gattino nero, rannicchiato sotto il guardrail, minuscolo e spaesato come se fosse caduto lì per sbaglio — o peggio, per volontà di qualcuno.
«C’è un gatto» ho detto, con la voce strozzata da quel tipo di istinto che certe donne chiamano amore, ma che in realtà è solo un radar finemente sintonizzato sul dolore altrui.
Lui non ha esitato. Ha fatto inversione, siamo tornati indietro, lo abbiamo recuperato.
Il gattino tremava come se avesse appena scoperto che al mondo esistono gli esseri umani.
L’abbiamo portato con noi. Lui, il mio compagno, era un po’ titubante, ma in fondo anche lui voleva salvarlo.
E io lì, nel mio delirio romantico, ho pensato: ecco, vedi? Voglio un uomo così. Sensibile. Con il cuore che si muove.
Ero felice.
Il gattino aveva circa sei mesi, le unghie sistemate, il pelo lucido, nessuna pulce. Qualcuno lo aveva amato. Fino al momento esatto in cui ha deciso che non lo voleva più.
L’abbiamo chiamato Bridge. Perché c’è del simbolismo nei salvataggi: da una morte certa a una seconda possibilità. Dalle mani di qualcuno che ti ha scartato, a quelle di qualcuno che decide di restare. O almeno così credevo.
Io avevo già due gatti. Ma per me Bridge non era “uno di troppo”, era il numero perfetto.
Lui, l’uomo, non il gatto, diceva che era meglio trovare una soluzione, un’altra casa.
Ma poi… passavano i giorni. E se ne innamorava anche lui. O almeno così sembrava.
Quando lui mi ha lasciata, mi sono sentita come Bridge.
Qualcuno che ti aveva promesso amore… e poi ti lascia lì.
Così. Sul ciglio di una strada. Su un ponte. Con il lago sotto.
Il dettaglio più assurdo?
La sera prima, avevamo fatto l’amore, come sempre, come ogni giorno.
Con la solita dolcezza, la stessa familiarità, le stesse mani che sanno dove andare quando ormai si conosce il corpo dell’altro come una seconda pelle.
Mi aveva guardata come sempre. Mi aveva detto le solite cose che si dicono quando si ama, o si finge bene.
E poi, il giorno dopo, mi ha lasciata.
Così. Come si chiude una finestra prima di un temporale.
Ho immaginato spesso chi aveva adottato Bridge prima di noi. Avrà comprato la ciotolina carina, la cuccia fluffosa, il collare con il nome. Tutto quel meraviglioso arsenale da pet-parent che scatta nei primi dieci minuti di entusiasmo compulsivo.
Ma l’entusiasmo, si sa, ha la scadenza di uno yogurt dimenticato in frigo.
Bridge era diventato reale. Graffiava, saltava sui mobili, rubava la pancetta. E no. Questo non era previsto nel copione.
Non era più lui. Era diventato sé stesso.
Ed è lì che è crollato l’incantesimo.
Perché l’amore va bene… finché resta nella cornice. Quando esce, quando sporca, quando morde, diventa un problema da risolvere.
Allora si molla tutto. E si molla l’altro.
Così si finisce per odiare ciò che prima si adorava.
Non perché sia cambiato. Ma perché ha osato esistere oltre la fantasia.
E ti rendi conto che non era amore. Era solo l’ennesimo tentativo disperato di decorare la tua solitudine.
Gli ho detto che mi sentivo come Bridge.
Lui ha protestato: “Il paragone non regge, io non sono come chi ha abbandonato Bridge.”
Ah no?
E allora tutti quei caschi nel tuo garage, quelli acquistati subito per me, e quelli rimasti lì delle “altre”?
La mia bici? Quella acquistata per me, per pedalare insieme sul lungomare?
Caschi, bici, oggetti: il merchandising dell’amore usa e getta.
Tutte quelle cose non erano per noi. Erano per lui. Rimaste lì, nel suo garage!
Un collage emozionale fatto di persone che dovevano solo entrare nella sua scenografia, senza mai spostare un mobile.
Come Bridge, io avevo una mia vitalità. Un mio modo di fare. Coccolosa, sì. Ma anche con artigli.
E i nomignoli adorabili — “pasticcino, patata, bruschetta” — sono diventati stretti, come quei vestiti che smettono di piacerti appena la realtà prende forma.
Quando non ero più perfetta, sono diventata scomoda.
Quando ho iniziato a miagolare fuori copione, sono diventata troppo.
E allora, via. Sul ponte. Dove si lasciano le cose che non stanno più bene nel soggiorno dell’anima.
Ma vedi, caro ex mio, io lo so bene: quando compri una cuccia pensando che basti quello per creare amore, non è amore. È arredamento.
E oggi, mentre guardo Bridge che mi guarda, sento che siamo una gran bella squadra.
Niente più cuccette infiocchettate. Niente illusioni di amori eterni impacchettati come regali. Niente illusioni di eternità. Solo una semplice, sacrosanta verità: non mi abbandonerò più.
Perché l’abbandono peggiore non è quando se ne vanno gli altri.
È quando cominci tu a dubitare del tuo valore solo perché qualcun altro ha lasciato il guinzaglio per strada.
Forse lui non poteva farcela. O forse aveva il cuore impastato di ex storie che gli hanno asciugato il coraggio.
O magari ha solo smesso di credere nell’amore e ha iniziato a collezionarne versioni convenienti.
Non importa.
Io non so se amerò ancora come prima. Ma so che la prossima volta non salirò sul ponte con nessuno che non sappia davvero dove sta andando.
E sì, può anche darsi che prima di abbandonare Bridge qualcuno l’abbia accarezzato e gli abbia detto:
“Perdonami, non ce la faccio.”
Ma su un ponte? Con il lago sotto?
No, caro. Non ti posso perdonare.
Neanche per un peluche. Figurati per una vita.
“Forse l’amore non è un peluche da coccolare finché non graffia. Forse è un essere vivente, umano o felino, che chiede solo una cosa: non essere lasciato sul ponte al primo graffio.
Perché alla fine, non è l’amore che fa paura. È la gente che si presenta come un rifugio… e poi si rivela una porta che si chiude quando hai più bisogno di entrare“
“Maybe love isn’t a plush toy to cuddle until it scratches. Maybe it’s a living being, human or feline, asking for just one thing: not to be left on the bridge at the first scratch. Because in the end, it’s not love we’re afraid of. It’s people who show up like a shelter… and turn out to be a door that slams shut just when you need to walk in most”