Perché, se avessi voluto risolvere enigmi, mi sarei iscritta a Chi ha incastrato Roger Rabbit.

C’è un momento in cui capisci che qualcosa non va.
Un silenzio che pesa troppo o una parola che pesa troppo poco.
Una carezza che si spegne a metà. Un’energia che cambia.
E poi, arrivano loro: i campanellini.
No, non quelli di Natale.
Quelli dell’Enigmista.
Mi ha detto, con la solennità di chi si sente profondo ma recita da copione, che da tempo faceva suonare campanellini.
Come se la nostra storia fosse una puntata di Saw, versione romantica ma non meno sadica.
Come se, invece di costruire qualcosa insieme, il mio ruolo fosse quello della concorrente ignara che deve decifrare segnali nascosti, pena la fine della relazione.
E io che pensavo di essere in una storia d’amore.
Invece ero finita in una specie di gioco dell’oca sentimentale, dove se tiri il numero sbagliato torni indietro di tre caselle, senza passare dal via, senza possibilità di appello.
Ma non era uno che taceva.
Parlava.
Eccome se parlava.
Parlava per dire tutto quello che non gli piaceva.
Tutto quello che non voleva.
Tutto quello che non dovevo più fare.
Era come avere accanto un correttore automatico vivente: sempre acceso, sempre pronto a sottolineare un errore in rosso. Un gesto, una parola, un tono sbagliato… e tac: campanellino.
Una critica detta con quel tono gentile-passivo-aggressivo che ti lascia con il dubbio: sto crescendo o sto solo imparando a non dare fastidio?
Così ho perso naturalezza.
Ho iniziato a stare attenta.
A evitare.
A muovermi con cautela, come si fa in casa altrui.
E la relazione, quella che dovrebbe essere il posto più tuo del mondo, è diventata un campo minato.
Diceva di essere un forziere.
Di quelli antichi, preziosi, con mille serrature.
“Solo chi mi merita può aprirmi”, ripeteva.
E io lì, ogni volta, a cercare la famosa chiave, come se l’amore fosse un quiz a premi.
Ma io non voglio “aprire” nessuno.
Non voglio essere quella che trova il codice segreto, la combinazione esatta, il gesto giusto.
Io non arrivo con il piede di porco emotivo.
Io arrivo con la valigia.
Con le mani piene di quotidianità. Con il corpo da condividere, il cuore da mostrare, la voce da usare. Con il desiderio semplice di esserci e stare.
E quel forziere? L’ho guardato bene.
Ci ho visto un vuoto.
Non il vuoto tragico.
Il vuoto decorato.
Un vuoto foderato di velluto. Ben impacchettato, incorniciato, lucidato ogni giorno con cura per sembrare raro, inaccessibile, desiderabile.
Ma pur sempre vuoto.
E io, che so vedere oltre, ho visto.
Ho visto la fragilità sotto la cornice. Ho visto il bambino che non si fida. Ho visto la paura di essere visto.
E per un po’ ho pensato che bastasse il mio amore.
Che se io restavo, lui si sarebbe fermato.
Che se io ascoltavo, lui avrebbe imparato a parlare.
E invece parlava solo per dettare regole. Non per costruire, ma per contenere.
Perché c’è una differenza enorme tra dire cosa non vuoi, e dire cosa sei disposto a costruire.
E lui quella parte lì, la parte costruttiva, viva, responsabile, non ce l’aveva.
Un uomo maturo, uno davvero grande, fa una cosa molto semplice:
Si siede.
Parla.
Ti guarda negli occhi e ti dice:
“Sento che qualcosa non va. Ma ho scelto te, voglio capire come andare avanti, insieme.”
Un uomo così non ti giudica al primo errore.
Non ti mette in punizione.
Non ti fa sentire sotto esame.
Custodisce.
Ricorda.
Ricostruisce.
Lui invece ha fatto l’opposto.
Ha perso l’occasione di vivere un amore reale.
Non perfetto, non scenico, ma profondo.
Con una donna che non voleva vincere nessun trofeo, ma semplicemente esserci. Con qualcuno che lo amava anche nel difetto, anche nel silenzio, anche nel giorno no.
Ha perso una grande occasione.
Con me, che avevo ancora lo spazio nel cuore per crederci.
Con sé stesso, che avrebbe potuto smettere di essere solo una bella scatola da esposizione.
Io non voglio l’amore come premio.
Non voglio guadagnarmi nessuno.
Non voglio sudare per un posto accanto a un re senza regno.
Voglio qualcuno che si sieda con me, nella stessa cornice. Che sappia che il valore non è nel bordo dorato, ma in quello che ci metti dentro.
Voglio un amore che si costruisce.
Dove oggi ti sostengo io, domani tu.
Dove si sbaglia, si inciampa, si ride e si chiede scusa.
Voglio un amore senza quiz, senza prove, senza trappole.
Non voglio più l’amore come obiettivo.
Voglio l’amore come casa.
Magari con meno campanellini.
E un po’ più di coraggio.

Alla fine, l’amore non è un quiz a premi: se devi sudare per un posto nel cuore di qualcuno, meglio puntare sul divano con una buona serie TV.