Odiava le discussioni, diceva. Io odiavo il silenzio che ne seguiva. Ma la verità? Nessuno dei due era innocente. Perché a volte il vero problema non è chi parla o chi tace, ma quello che scegliamo di non vedere. Pronti a scoprire cosa succede quando l’amore diventa un monaco zen che cerca di scappare dalle sue stesse capre?

Ci sono frasi che ti restano appiccicate addosso come una colla industriale: invisibili, ma ci metti anni a liberartene.
Una di queste, nel mio caso, è:
“Io non voglio discussioni. Mi appesantiscono.”
Sembrava quasi una dichiarazione di intenti da uomo saggio.
Uno di quelli che meditano prima di rispondere, che parlano sottovoce per non disturbare l’universo.
Ma no.
Lui non evitava le discussioni per amore della pace. Le evitava perché lo destabilizzavano. Perché lo facevano arrabbiare. E tanto.
Perché in mezzo a un confronto perdeva controllo, lucidità, e pure una discreta quantità di rispetto.
Il problema non era la discussione. Era quello che saltava fuori da lui durante la discussione.
E io, con la mia emotività, le mie domande, la mia voglia di capire, ero semplicemente troppo.
Troppo stimolo, troppo specchio, troppo vicina al punto che cercava di nascondere.
E quando tocchi certi nervi, non ottieni dialogo. Ottieni detonazione.
Le discussioni, comunque, arrivavano. Nonostante i suoi “non voglio parlarne”.
A volte le innescava lui. A volte io. Altre volte, boh, era solo martedì.
Perché quando qualcosa sobbolle dentro, basta uno sguardo storto per far saltare il coperchio.
E no, non sempre si può decidere chi ha premuto il bottone.
Lui non era il tipo da abbracci senza motivo o regali inaspettati.
Era più da presenza gestionale: c’era, ma con la stessa intensità emotiva di un’email dell’INPS.
Io, invece, volevo qualcosa che assomigliasse almeno vagamente a un legame.
Un gesto che dicesse: “sono qui perché lo scelgo”, non perché lo devo.
Ma più cercavo, più si ritraeva.
E non perché non provasse nulla. Ma perché provava troppo.
E quel troppo lo spaventava. O peggio: lo faceva reagire con rabbia.
Poi c’era quella frase. Quella che ancora oggi mi fa stringere la mandibola:
“Ci sono lati di me che non mi piacciono. Cerco una persona che non me li faccia uscire.”
Perfetto.
Quindi, idealmente, una fidanzata silenziosa, anestetizzata, inoffensiva.
Un antistimolo emotivo con la funzione di non far esplodere nulla.
Peccato che io non fossi un tranquillante da banco.
E che la vita, quando è vera, non possa proteggerti da te stesso.
Perché quelle parti che non sopporti, se non le affronti, ti useranno.
Si infilano in ogni crepa, in ogni parola detta male, in ogni tensione non gestita.
E a quel punto, non è la relazione a essere tossica. È la tua reazione che lo diventa.
Io, almeno, ho sempre cercato di fare il contrario.
Di guardarmi. Di capire perché mi sento in un certo modo, perché reagisco così, cosa mi scatta dentro.
Ho scavato. Ho sbagliato. Ho sistemato. Sto ancora sistemando.
Ma almeno, se qualcosa mi esplode dentro, non dò la colpa all’innesco. Mi prendo la responsabilità della dinamite.
Lui no.
Lui ha visto il riflesso, si è spaventato, e ha provato a distruggerlo.
Non perché io fossi un mostro.
Ma perché io vedevo.
E allora mi chiedo:
Capirà mai che la rabbia non è il problema, ma il modo in cui la ignori?
Che l’emotività non è un difetto, ma un indicatore?
Che se scappi da tutto ciò che ti smuove, finisci per desiderare relazioni anestetiche, sterili, facili da sopportare ma impossibili da vivere?
L’ultima volta mi ha detto:
“Sai quanti come me troverai?”
E io ho sorriso.
No, non ne troverò.
Perché ognuno di noi è irripetibile, nel bene e nel male.
E tu, che tanto temi le tue ombre, non hai ancora imparato a vedere nemmeno la tua luce.
E ti auguro, davvero, un giorno di riuscirci. Magari in silenzio, magari da solo.
Ma senza cercare altre capre da incolpare solo perché non riesci a fare il monaco zen.
Io, invece, continuerò a sporcare le mani.
A stare. A scavare. A farmi domande anche quando è scomodo.
Perché se devo scegliere tra una persona che mi fa sentire sempre tranquilla e una che mi costringe a guardarmi, scelgo la seconda.
Anche se mi mette in crisi.
Anche se mi ribalta.
Perché l’amore, quello vero, non ti protegge dalle tue parti peggiori.
Ti aiuta a farci pace.
