Il silenzio non distrugge, prepara

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Ci sono notti in cui sembra che l’universo ti stia zittendo di nuovo.
Notti in cui la vita si ripresenta con lo stesso ghigno di quella violenza che credevi di aver lasciato indietro, e ti toglie ancora una volta la voce.
Ti toglie la luce.
Ti toglie la speranza di aver finalmente imparato a respirare.

Ho iniziato a scrivere questo blog come si inizia una cura.
Non con la pretesa di guarire, ma con la necessità disperata di non morire dentro.
Scrivere è stato il mio modo di gridare quando nessuno ascoltava, di mettere ordine tra le macerie, di dare forma a quel silenzio che troppo spesso viene imposto alle donne, con le mani, con la paura, con la vergogna, con l’indifferenza.

Ho vissuto una relazione tossica, e la parola “tossica” non basta a contenerne la portata.
C’è stato un gesto violento.
C’è stato un abbandono in una notte calda d’estate, in mezzo a una strada, come se fossi diventata un rifiuto.

Eppure, il dolore di chi ama e riceve in cambio il male non ha nome.
Ti trapassa le ossa.
Ti brucia l’anima.
Ti scava dentro fino a non lasciarti più distinguere dove finisce la colpa e dove inizia la sopravvivenza.

Scrivere è stato il mio modo di rimettere insieme i pezzi di quell’anima frantumata.
Un viaggio dentro l’inconscio, come direbbe Jung: lì dove vivono le ombre, ma anche la possibilità di trasformarle in luce.
Perché la guarigione non è dimenticare, è integrare.
È accettare che anche il dolore, l’orrore, la paura, facciano parte della nostra storia.
È sedersi accanto al proprio dolore e dirgli: “Ti vedo. Ma non mi definisci più.”

Così questo blog è diventato una cura, per me e forse anche per chi mi leggeva.
Una piccola costellazione di anime che, nel buio, riconoscevano la stessa ferita e la stessa forza.
Uno specchio in cui finalmente ci si guarda negli occhi e si può dire a se stessi:
“Non è colpa mia.”

Ma il male ha molti volti, e a volte indossa una maschera digitale.
Tutti i miei canali social, le mie parole, la mia voce, sono stati hackerati.
Scomparsi sotto i miei occhi.
Un furto che non è solo informatico: è simbolico.
È la ripetizione di un gesto antico, il tentativo di mettere di nuovo una mano sulla bocca di una donna che osa parlare.

E allora mi chiedo: forse, nel 2025, non siamo ancora pronti ad ascoltare davvero la voce delle donne.
Forse la verità delle nostre ferite è ancora troppo luminosa per chi vive di ombre.
Forse la forza di chi si rialza, di chi trasforma il dolore in parola, in arte, in cura, è ancora troppo scomoda per un mondo che preferisce le donne silenziose, decenti, docili.

Sì, troppo scomoda.
Perché una donna che ritrova la propria voce è una rivoluzione.
È la prova vivente che il controllo è un’illusione, che la paura non vince, che il male non ha l’ultima parola.
È la Fenice che brucia tutto, anche le gabbie mentali e culturali, e dalle sue ceneri genera nuova vita.
E il mondo, forse, non è ancora pronto a reggere tanto splendore.

Questa notte sento di nuovo quella mano invisibile sulla bocca.
Quella che ti sussurra “stai zitta”, quella che ti fa dubitare del tuo valore, quella che ti fa sentire di nuovo sola, in quella stessa strada buia di quattro mesi fa.
Ma c’è una differenza, stanotte.
Adesso so che il silenzio non mi distrugge: mi prepara.
Mi costringe a tornare dentro, a riaccendere il fuoco, a ricordare chi sono.

E allora, tra le lacrime che ancora scendono, mi dico:
“Supererai anche questo.”
E lo so, perché l’ho già fatto.
Perché la mia voce, anche se spenta fuori, dentro continua a cantare.
Perché ogni volta che qualcuno prova a spegnerla, diventa più forte.

E sì, sono arrabbiata.
Ma questa rabbia è sacra.
È l’energia primordiale di chi rifiuta di essere vittima, di chi trasforma la ferita in conoscenza, la caduta in forza.
È la mia Anima che torna a parlarmi, e io la ascolto.
Non la lascerò mai più zittire.

Perché la verità è questa:
Puoi hackerare i miei profili, ma non la mia voce.
Puoi cancellare i miei post, ma non la mia storia.
Puoi provare a spegnere la mia luce, ma non la mia fiamma.

E allora scrivo.
Scrivo ancora.
Scrivo per me, per le donne che non riescono ancora a farlo, per quelle che stanno cercando il coraggio di dire “basta”.
Scrivo perché tra le parole ritrovo la mia voce, e con lei la forza di sentirmi viva.
E mentre scrivo, sento di nuovo il cuore battere.

E capisco che sì, sarò voce. Anche stavolta.


Il male esiste, e a volte sembra onnipotente.
Prova a spegnere la voce, a piegare la volontà, a lasciare solo paura e ombre.
Ma chi lo affronta, chi lo osserva negli occhi senza farsi definire da esso, scopre che il male può diventare testimonianza, conoscenza, energia per resistere.
Non è consolazione, non è giustizia: è la consapevolezza che, anche quando il male colpisce, c’è chi rifiuta di lasciarsi cancellare, chi trova dentro sé stesso la forza per continuare, per proteggere ciò che resta, per non consegnarsi al suo dominio.

E io ve lo dico, dal mio piccolo spazio nel mondo: con tutto quello che ho, con ogni parola che riesco a scrivere, vi mando un pezzo di cuore. Perché, alla fine, sopravvivere significa anche questo, continuare a sentirsi vivi, insieme, un passo alla volta.

Con affetto

Elena

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