Se la vita fosse una serie TV, negli ultimi mesi avrei preteso di parlare col produttore: troppe trame assurde, zero coerenza narrativa e un accanimento quasi sospetto verso il personaggio principale, cioè me.
Eppure eccomi qui, senza effetti speciali né colpi di scena salvifici, solo con una verità semplice e un po’ cinica: a volte sopravvivere è già una forma avanzata di crescita personale.

Negli ultimi mesi la vita ha deciso di mettermi alla prova con lo stesso entusiasmo con cui l’universo lancia meteoriti sui dinosauri.
Prima un amore travestito da pecora (che pecora non era affatto).
Poi la macchina rotta.
Poi la macchina nuova rotta.
Poi i social hackerati.
Proprio mentre cercavo di restituire al mondo un pezzo della mia voce, qualcuno ha deciso di spegnerla di nuovo.
Silenzio. Buio. Reset.
Anni fa avrei reagito come facevo sempre: distruggendomi, ferendomi, trasformando la rabbia in armi rivolte contro me stessa.
Ma stavolta no.
Stavolta ho fatto qualcosa che per molti sembra piccolo, ma per me è stato titanico:
ho lasciato che il dolore mi attraversasse senza distruggermi.
Ci ho messo coraggio.
Ci ho messo resilienza.
Ci ho messo anche un po’ di sano cinismo, perché a un certo punto, se non ci ridi sopra, ti sciogli come una cialda nel cappuccino.
La verità è che ho un passato che non fa sconti: disturbi alimentari, un tumore, una separazione, e una vita che ho ricominciato a ricostruire con le mani che tremavano.
Poi è arrivata una relazione che ha cercato di buttarmi giù di nuovo.
E ci è quasi riuscita.
Quasi.
Perché c’è stata una cosa che non ho concesso:
non ho permesso alla rabbia di comandare la mia storia.
Non l’ho lanciata addosso a nessuno.
Non l’ho diretta contro di me.
L’ho lasciata lì, come un animale selvatico che osservi da lontano finché capisci che non è lì per sbranarti, ma per avvisarti che devi cambiare strada.
E allora ho scritto.
Ho scritto per non sparire.
Ho scritto per restare intera.
Ho scritto per trasformare quella rabbia in qualcosa che non fosse più veleno, ma carburante.
L’hackeraggio ha cercato di fermare tutto questo.
Ha provato a farmi tacere proprio quando stavo trovando la mia voce più sincera.
Ma eccomi qui.
Nonostante tutto.
Grazie a tutto.
Ed è qui che arriva la parola di oggi: empowerment.
Che non è una foto perfetta su Instagram, non è un mantra da palestra, non è l’idea che “se vuoi puoi”.
Per me empowerment è molto meno glamour e molto più vero:
È rialzarsi anche quando non hai nessuno che ti applaude.
È continuare a parlare quando qualcuno ti silenzia.
È ricominciare da zero, anche quando non hai scelto tu di perdere tutto.
È restare fedele a te stessa dopo che il mondo ti ha fatto a pezzi.
È capire che la porta non è chiusa:
è solo pesante.
E tu hai ancora la forza per spingerla.
E quando si apre anche solo di un centimetro,
quello è empowerment.
Non un fascio di luce perfetto,
ma la scelta di non richiuderla.
Perché, diciamolo, la vita non suona mai la fanfara quando rialzi la testa.
Non ti manda un mazzo di rose.
Al massimo ti manda un’altra scocciatura, giusto per controllare se sei davvero pronta.
E tu, con il mascara mezzo colato e la dignità rimessa insieme con lo scotch, vai avanti lo stesso.
Quello è empowerment.
È guardarti allo specchio dopo l’ennesima tempesta e pensare:
“Okay, Universo, non so se volevi distruggermi o rendermi più brillante, ma ti informo che mi hai solo resa più ostinata.”
È aprire quella maledetta porta pesante e renderti conto che sì, cigola, fa resistenza, ti lascia pure un livido…
ma si apre.
E alla fine capisci che non serviva un sole grande.
Bastava uno spiraglio.
Bastavi tu.
“Se oggi ti sembra tutto troppo, ricordati che anch’io mi sono rimessa insieme. A colla e ironia. Funziona.”
Elena M