Manuale d’istruzioni smarrito: quando abbiamo smesso di aggiustare l’amore

C’è stato un tempo in cui le cose non si buttavano. Si aggiustavano.

Le sedie traballanti venivano rinforzate. I maglioni rattoppati.

Gli oggetti avevano una vita lunga, segnata da graffi, riparazioni, mani diverse. Erano imperfetti, ma duravano.

Poi è arrivato il consumismo. Non solo nei negozi, ma nelle teste.

Se non funziona più, cambia.

Se richiede manutenzione, sostituisci.

Se costa fatica, non vale la pena.

E senza quasi rendercene conto abbiamo applicato lo stesso principio alle relazioni.
Oggi molte persone non vivono l’amore: lo consumano.
Entrano, prendono, usano, se ne vanno.
Non perché manchi l’occasione giusta, ma perché manca la capacità emotiva di creare un legame.
Chi vive così non ama.
Non nel senso profondo del termine.
Non perché sia cattivo, ma perché non sa provare cura, continuità, responsabilità affettiva.
Scambia il desiderio per sentimento e l’intensità per profondità.
Dal punto di vista psicologico, questo non è progresso.
È evitamento.

Riparare una relazione richiede presenza, ascolto, coinvolgimento emotivo.

Sostituirla è più semplice: ti preserva dal confronto, dal limite, dalla possibilità di sentire davvero.

Ed è qui che entra in gioco anche la cultura che abitiamo.

Perché questo comportamento, quando appartiene a un uomo, raramente viene messo in discussione.

Anzi, spesso viene celebrato.

L’uomo che passa da una donna all’altra viene chiamato cacciatore.

Libero.

Esperto.

Come se l’accumulo fosse un valore.

Come se il continuo passaggio fosse una prova di forza.

Lo stesso comportamento, in una donna, cambia nome.

E cambia giudizio.

Questo doppio standard non è solo ingiusto: è pericoloso.

Perché legittima una povertà emotiva mascherandola da autonomia.

E normalizza l’idea che le persone siano esperienze, non esseri umani.

Dal punto di vista junghiano, è una scissione profonda: un “IO” che agisce e un sentire che resta fuori.

Chi consuma le relazioni non è libero, è disconnesso.

Da sé, prima ancora che dall’altro.

Dal punto di vista gestaltico, l’amore è contatto.

E il contatto vero implica presenza emotiva, non solo disponibilità fisica o narrativa.

Chi non sa sentire, non può prendersi cura.

E chi non si prende cura, non ama: utilizza.

Il consumismo emotivo: evita, sostituisce, accumula.

Lascia dietro di sé legami non elaborati e persone costrette a ricostruire senso e fiducia.

E il paradosso è questo: chi non aggiusta nulla, non costruisce nulla.

Chi cambia sempre, non approfondisce mai.

Chi consuma l’amore, resta affamato.

Forse non abbiamo bisogno di relazioni nuove.

Forse abbiamo solo dimenticato un gesto antico: fermarsi davanti a qualcosa che conta e chiedersi se si è capaci di prendersene cura. Perché l’amore non è un oggetto difettoso da buttare.

È una cosa viva.

E le cose vive richiedono presenza, emozione, responsabilità.

Ciò che non sappiamo custodire fuori, lo perdiamo dentro.

E la fuga dagli altri è sempre una fuga da se stessi.


Chi non sa prendersi cura non ama, non sente, non si commuove, non comprende. Può cambiare partner, accumulare esperienze, apparire leggero e libero. Ma dentro resta vuoto, incompleto, incapace di costruire qualcosa che valga davvero. La libertà senza cura è illusione. La superficialità mascherata da autonomia non è forza, è fuga. E chi sceglie la fuga dall’altro, prima o poi, scopre di essere fuggito solo da sé stesso.

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