Manuale d’istruzioni smarrito: quando abbiamo smesso di aggiustare l’amore

C’è stato un tempo in cui le cose non si buttavano. Si aggiustavano.

Le sedie traballanti venivano rinforzate. I maglioni rattoppati.

Gli oggetti avevano una vita lunga, segnata da graffi, riparazioni, mani diverse. Erano imperfetti, ma duravano.

Poi è arrivato il consumismo. Non solo nei negozi, ma nelle teste.

Se non funziona più, cambia.

Se richiede manutenzione, sostituisci.

Se costa fatica, non vale la pena.

E senza quasi rendercene conto abbiamo applicato lo stesso principio alle relazioni.
Oggi molte persone non vivono l’amore: lo consumano.
Entrano, prendono, usano, se ne vanno.
Non perché manchi l’occasione giusta, ma perché manca la capacità emotiva di creare un legame.
Chi vive così non ama.
Non nel senso profondo del termine.
Non perché sia cattivo, ma perché non sa provare cura, continuità, responsabilità affettiva.
Scambia il desiderio per sentimento e l’intensità per profondità.
Dal punto di vista psicologico, questo non è progresso.
È evitamento.

Riparare una relazione richiede presenza, ascolto, coinvolgimento emotivo.

Sostituirla è più semplice: ti preserva dal confronto, dal limite, dalla possibilità di sentire davvero.

Ed è qui che entra in gioco anche la cultura che abitiamo.

Perché questo comportamento, quando appartiene a un uomo, raramente viene messo in discussione.

Anzi, spesso viene celebrato.

L’uomo che passa da una donna all’altra viene chiamato cacciatore.

Libero.

Esperto.

Come se l’accumulo fosse un valore.

Come se il continuo passaggio fosse una prova di forza.

Lo stesso comportamento, in una donna, cambia nome.

E cambia giudizio.

Questo doppio standard non è solo ingiusto: è pericoloso.

Perché legittima una povertà emotiva mascherandola da autonomia.

E normalizza l’idea che le persone siano esperienze, non esseri umani.

Dal punto di vista junghiano, è una scissione profonda: un “IO” che agisce e un sentire che resta fuori.

Chi consuma le relazioni non è libero, è disconnesso.

Da sé, prima ancora che dall’altro.

Dal punto di vista gestaltico, l’amore è contatto.

E il contatto vero implica presenza emotiva, non solo disponibilità fisica o narrativa.

Chi non sa sentire, non può prendersi cura.

E chi non si prende cura, non ama: utilizza.

Il consumismo emotivo: evita, sostituisce, accumula.

Lascia dietro di sé legami non elaborati e persone costrette a ricostruire senso e fiducia.

E il paradosso è questo: chi non aggiusta nulla, non costruisce nulla.

Chi cambia sempre, non approfondisce mai.

Chi consuma l’amore, resta affamato.

Forse non abbiamo bisogno di relazioni nuove.

Forse abbiamo solo dimenticato un gesto antico: fermarsi davanti a qualcosa che conta e chiedersi se si è capaci di prendersene cura. Perché l’amore non è un oggetto difettoso da buttare.

È una cosa viva.

E le cose vive richiedono presenza, emozione, responsabilità.

Ciò che non sappiamo custodire fuori, lo perdiamo dentro.

E la fuga dagli altri è sempre una fuga da se stessi.


Chi non sa prendersi cura non ama, non sente, non si commuove, non comprende. Può cambiare partner, accumulare esperienze, apparire leggero e libero. Ma dentro resta vuoto, incompleto, incapace di costruire qualcosa che valga davvero. La libertà senza cura è illusione. La superficialità mascherata da autonomia non è forza, è fuga. E chi sceglie la fuga dall’altro, prima o poi, scopre di essere fuggito solo da sé stesso.

L’unica… ma davvero? Cronaca di un romanticismo in saldo

Ci siamo conosciuti e, in quel periodo, lui mostrava interesse. Non il corteggiamento da manuale: niente fiori o messaggi poetici sotto casa, solo sguardi, attenzioni, curiosità che ti fanno pensare “mi vuole davvero conoscere”. Ogni parola mi faceva sentire speciale, come se fossi entrata in un mondo riservato a pochi eletti. Era dolce, attento.

Passavano i mesi. Mi raccontava, e lo ribadiva con convinzione, che in tutto quel tempo ero stata l’unica. L’unica con cui usciva, l’unica con cui si sentiva, l’unica di cui aveva davvero interesse. Con occhi sinceri e dolci mi disse: “sei stata l’unica”.

Quelle parole mi hanno conquistata: erano come un biglietto d’oro per il suo mondo, e io ci sono salita senza esitazioni.

Quando ci siamo messi insieme, quella sensazione si è consolidata: mi sentivo speciale, come se l’universo si fosse fermato per noi. Tutto romantico, perfetto, zucchero filato.

Poi, quasi un anno dopo, la scoperta. Un mese prima di diventare ufficialmente il mio fidanzato, c’era stato un incontro. Non uno di quelli epici o memorabili: ridicolo, quasi tragicomico. Una caduta di stile, l’uomo che sembrava perfetto si era abbassato così tanto da rasentare il ridicolo. L’uomo che mi aveva giurato “sei l’unica” aveva mentito su tutta la linea: non ero l’unica a ricevere attenzioni, non ero l’unica con cui aveva avuto contatti… insomma, l’unica promessa era solo nella sua testa. Tutto il resto, pura finzione. Una bugia viscida e precisa che ferisce più di qualsiasi gesto fisico: non era il fatto in sé a farmi male, ma l’inganno, il tradimento della parola che avevo preso sul serio.

Sapeva benissimo di aver infranto ogni promessa, ma dei miei sentimenti non gliene importava nulla. Spesso ho insistito per avere spiegazioni, e ogni volta la sua risposta era la stessa: “non eravamo ufficialmente insieme”, un alibi usato con me per zittirmi, mentre con lei…le aveva detto l’esatto contrario per tenerla lontana. Risposta ogni volta accompagnata da un’immensa rabbia e dall’implicito imperativo di non chiedere oltre. Un alibi perfetto, costruito per salvare la sua coscienza e giustificare la menzogna. Perché se non mi avesse detto che ero “l’unica”, probabilmente nessuno avrebbe potuto obiettare nulla: la sua promessa mi aveva messa in trappola, giocata sulla fiducia. È questa ambiguità che mi ha ferita: il fatto che le mie emozioni fossero state manipolate, e che ogni “sei l’unica” si trasformasse in una beffa amara, facendo frantumare la fiducia in mille pezzi.

Dovevo fare i bagagli allora. Dovevo raccogliere cuore, emozioni e tutto il resto e andarmene. Ma mi ero innamorata. Così ho tenuto dentro quel dolore, convinta che prima o poi si sarebbe dissolto. Non è stato così: ogni volta che incrociavo quella persona, anche per caso, la ferita si riapriva come se fosse appena stata fatta, martellando il mio cuore già incrinato con precisione chirurgica.

Cinque mesi dopo la fine della relazione, ho rivisto la persona che mi destabilizzava. E il dolore? Sparito. Rimane solo una liberazione dolce e cinica. Lui? Meglio lontano. Avrei dovuto fare i bagagli allora, sì, ma la vita ha scelto per me, e ora quella scelta è diventata leggerezza. Avevo tra le mani una banconota così falsa che sarebbe stata riconosciuta da un cieco, e posso solo sorridere pensando a quanto il prezzo della libertà valga più di qualsiasi promessa sbiadita. Il romanticismo patetico, i mille nomignoli zuccherosi e il teatrino di chi pensava di poter comandare emozioni altrui erano ormai solo ricordi… tanto che, se la nostra storia avesse avuto una colonna sonora, sarebbe stata “Dimmi cosa pensi di me” di Olmo & Vanette: lui tutto zucchero e nomignoli, e lei che chiude lo stacchetto con un inequivocabilmente m****

Chissà, forse qualcuno lì fuori starà ancora cercando di capire come fa un uomo a cadere così in basso con così poco stile.


A volte l’incontro con l’ombra degli altri e le nostre illusioni fa male, eccome. Ma il dolore non è un errore: è il maestro che ci insegna a riconoscere ciò che è vero, a lasciare andare ciò che non lo è e a scegliere con occhi e cuore finalmente aperti.

Quattro euro e una briochina: istruzioni per essere libere

Libertà. Una parola grande, ma a volte basta una briochina e quattro euro per sentirla vicina.

Oggi ho incontrato una donna che per la burocrazia resta una mia utente, ma per la vita è diventata un’amica. Stavamo parlando delle sue solite fatiche e, puntuale come una tassa, è arrivato il tema dei soldi.

Per lei il denaro è una sorta di meteorologia emotiva: “Quando tornerò a lavorare non avrò più problemi. Non salterò più una bolletta. Non vivrò più con questa paura di non farcela.”

È un pensiero che capisco, ma che conosco benissimo: l’idea che la libertà arriverà quando la vita fuori sarà finalmente in ordine.

Un piccolo inganno della psiche, raffinato quanto inutile.

Per sdrammatizzare, e forse anche per farle vedere la crepa nel ragionamento, le ho raccontato la mia:

“Guarda che i problemi non scadono quando arriva la busta paga. Questo mese ho sbagliato i conti… e mi sono ritrovata con quattro euro sul conto. Quattro. Non quaranta, quattro! Stasera la mia cena è una briochina.”

Una di quelle briochine che, quando la scarti, ti chiedi se sia lei ad essere piccola o sei tu ad avere troppe aspettative.

Non lo racconto per fare tragedie gastronomiche, né per fare filosofia col portafoglio.

Anzi, il contrario: era per farle capire che anche quando sei libera, la vita non smette di essere imperfetta.

La differenza è che non dipendi più dal fuori per respirare.

È quella libertà sottile: sapere che te la cavi comunque, che il mondo non ti crolla addosso se il conto è leggero, che non serve aspettare che tutto sia perfetto per fare il primo passo.

Perché, alla fine, non era una conversazione sui soldi. Era una conversazione sulle scuse. Sulle microscopiche barriere che costruiamo per non muoverci: “Non lavoro”, “Non sono autonoma”, “Non posso finché non ho abbastanza”, “Non ce la faccio”.

Piccoli altari su cui sacrifichiamo la possibilità del cambiamento. E lo capisco, perché tutte, prima o poi, ci siamo sedute lì: in quel limbo familiare, fatto di paure travestite da logica, di comodità travestite da impossibilità.

Il punto è smettere di aspettare il momento ideale e riconoscere che possiamo fare oggi ciò che vogliamo davvero fare. Quel primo passo minuscolo, ridicolo, che però sposta l’asse interno più di qualsiasi miracolo esterno.

Abbiamo riso, molto. Ho tirato fuori il sacchetto con la mia briochina, ci siamo guardate con gli occhi lucidi dalle risate.

Poi le ho chiesto:

“Qual è la cosa che desideri davvero per te stessa?”

Ci ha messo un attimo a rispondere:

“La libertà.”

Ecco. Lì c’è tutto.

La libertà non arriva quando avrai abbastanza. Arriva quando smetti di raccontarti che senza quel ‘abbastanza’ non puoi cominciare.

Lei questo movimento lo sta facendo, piano, come succede quando la verità arriva bussando invece che sfondando la porta. E forse la sua libertà inizia proprio così: da un piccolo scarto interno, quasi impercettibile, ma decisivo. Da quell’istante in cui ti accorgi che la scelta può iniziare oggi, anche con quattro euro, anche con una briochina, anche con un filo di paura.

E che non c’è nulla di meno libero che aspettare di non averne più.


La libertà non arriva quando tutto è perfetto. Non arriva quando i conti tornano, quando le scuse finiscono o quando il mondo sembra finalmente allineato… pianeti, costellazioni, unicorni e tutto il resto. Arriva quando smetti di raccontarti storie e decidi di fare quel piccolo passo, anche se fa paura. Arriva quando capisci che l’unica persona di cui puoi davvero fidarti sei tu… e che aspettare il momento perfetto è solo un modo elegante per restare ferma a guardare il cielo sperando che gli astri si mettano d’accordo.

Arriva quando smetti di aspettare e decidi che oggi, imperfetta, ridicola o disastrosa che sia, sei tu a guidare lo spettacolo.

Mercoledì di ordinario sessismo: quando il patriarcato ti sorpassa… in bici

Esco dal bar, il mio solito caffè americano da asporto in mano, quello che mi illudo mi renda più americana e meno immersa nel folklore urbano italiano. Apro la macchina, salgo, accendo, mi immetto nella stradina stretta, una via a senso unico dove il massimo brivido dovrebbe essere evitare i bidoni della differenziata.

Poi, dal nulla, dietro di me compare lui: il ciclista agonistico della domenica, ma in versione mercoledì mattina. Circa 60 anni…o su o giù di lì. Tenuta tecnica, sguardo fiammeggiante, VO₂ max probabilmente più alto del suo quoziente empatico.

Non parla: spruzza testosterone acustico.
“Non sai guidare!”
“Alle donne andrebbe tolta la patente!”
“Le donne non capiscono niente!”

Interessante come certi uomini riescano a produrre più fiato per insultare che per pedalare.

Io procedo a trenta, perché quello è il limite, e soprattutto perché non sono candidata al Giro d’Italia, ma lui si agita come se stessi sabotando la sua carriera olimpica immaginaria. Sorpassa invadendo tutta la carreggiata, già stretta, e a quel punto abbasso il finestrino e gli regalo un elegantissimo, lucidissimo:
«Buongiorno a lei.»

Che, in linguaggio urbano, è l’equivalente di srotolare un tappeto rosso e invitarlo a inciampare da solo.

Lui esplode.
Mi urla che ho comprato la patente. Che devo “togliermi di mezzo”.
Io, con la calma zen di chi ha visto già abbastanza uomini del genere per tre vite, rispondo:
«Cafone.»

E lì si apre il reparto insulti a tema ginecologico, quelli che certi uomini microscopici tirano fuori quando finiscono il vocabolario:
Puttan*!” “Troi*!”

Tutto questo mentre pedala al centro della strada, convinto che la sua virilità sia un mezzo di trasporto prioritario.

E mi ritrovo a pensare:
secondo lui avrei dovuto… cosa?
Evaporare?
Sparire nel nulla come un miraggio femminile fuori posto nella sua corsia immaginaria?
Teletrasportarmi dietro a un lampione per lasciargli strada alla sua bici costosa e alla sua frustrazione emancipata?

Ma mentre si allontanava sbraitando, ho avuto un pensiero molto semplice:

quanti uomini pedalano sopra il patriarcato senza neanche accorgersene, convinti che sia solo asfalto?

Perché in Italia basta un mercoledì, un caffè da asporto e una strada a senso unico per ricordarti che il sessismo non è un concetto astratto: è un ciclista che ti urla contro, sicuro di avere ragione perché sei donna.

E mentre lui spariva, ho sorriso.
Amaro, certo. Cinico, ovvio. Ma pur sempre un sorriso.

Perché alla fine, essere donna significa due cose:
schivare i colpi e avere abbastanza ironia per riderci sopra.

Noi, solo un “cafone” detto bene,
Loro, un intero mondo che ancora permette a certi deliri di sentirsi legittimi.

E il vero problema non è nemmeno il ciclista in sé, ma tutto ciò che gli consente di credere che quella rabbia, quel maschilismo, quella minuscola arroganza abbiano ancora diritto di cittadinanza sulle nostre strade, nelle nostre orecchie e nei nostri mercoledì mattina.

Ma, probabilmente, in fondo…molto in fondo, diciamo in basso, aveva solo bisogno di sfogarsi. Succede, quando l’unica cosa che riesci a superare… è una donna che va a trenta all’ora.

Empowerment (versione sopravvissuta)

Se la vita fosse una serie TV, negli ultimi mesi avrei preteso di parlare col produttore: troppe trame assurde, zero coerenza narrativa e un accanimento quasi sospetto verso il personaggio principale, cioè me.
Eppure eccomi qui, senza effetti speciali né colpi di scena salvifici, solo con una verità semplice e un po’ cinica: a volte sopravvivere è già una forma avanzata di crescita personale.

Negli ultimi mesi la vita ha deciso di mettermi alla prova con lo stesso entusiasmo con cui l’universo lancia meteoriti sui dinosauri.
Prima un amore travestito da pecora (che pecora non era affatto).
Poi la macchina rotta.
Poi la macchina nuova rotta.
Poi i social hackerati.

Proprio mentre cercavo di restituire al mondo un pezzo della mia voce, qualcuno ha deciso di spegnerla di nuovo.

Silenzio. Buio. Reset.

Anni fa avrei reagito come facevo sempre: distruggendomi, ferendomi, trasformando la rabbia in armi rivolte contro me stessa.
Ma stavolta no.

Stavolta ho fatto qualcosa che per molti sembra piccolo, ma per me è stato titanico:
ho lasciato che il dolore mi attraversasse senza distruggermi.

Ci ho messo coraggio.
Ci ho messo resilienza.
Ci ho messo anche un po’ di sano cinismo, perché a un certo punto, se non ci ridi sopra, ti sciogli come una cialda nel cappuccino.

La verità è che ho un passato che non fa sconti: disturbi alimentari, un tumore, una separazione, e una vita che ho ricominciato a ricostruire con le mani che tremavano.

Poi è arrivata una relazione che ha cercato di buttarmi giù di nuovo.
E ci è quasi riuscita.

Quasi.

Perché c’è stata una cosa che non ho concesso:
non ho permesso alla rabbia di comandare la mia storia.

Non l’ho lanciata addosso a nessuno.
Non l’ho diretta contro di me.

L’ho lasciata lì, come un animale selvatico che osservi da lontano finché capisci che non è lì per sbranarti, ma per avvisarti che devi cambiare strada.

E allora ho scritto.
Ho scritto per non sparire.
Ho scritto per restare intera.
Ho scritto per trasformare quella rabbia in qualcosa che non fosse più veleno, ma carburante.

L’hackeraggio ha cercato di fermare tutto questo.

Ha provato a farmi tacere proprio quando stavo trovando la mia voce più sincera.
Ma eccomi qui.
Nonostante tutto.
Grazie a tutto.

Ed è qui che arriva la parola di oggi: empowerment.
Che non è una foto perfetta su Instagram, non è un mantra da palestra, non è l’idea che “se vuoi puoi”.

Per me empowerment è molto meno glamour e molto più vero:

È rialzarsi anche quando non hai nessuno che ti applaude.
È continuare a parlare quando qualcuno ti silenzia.
È ricominciare da zero, anche quando non hai scelto tu di perdere tutto.
È restare fedele a te stessa dopo che il mondo ti ha fatto a pezzi.

È capire che la porta non è chiusa:
è solo pesante.

E tu hai ancora la forza per spingerla.

E quando si apre anche solo di un centimetro,
quello è empowerment.
Non un fascio di luce perfetto,
ma la scelta di non richiuderla.

Perché, diciamolo, la vita non suona mai la fanfara quando rialzi la testa.
Non ti manda un mazzo di rose.
Al massimo ti manda un’altra scocciatura, giusto per controllare se sei davvero pronta.
E tu, con il mascara mezzo colato e la dignità rimessa insieme con lo scotch, vai avanti lo stesso.

Quello è empowerment.

È guardarti allo specchio dopo l’ennesima tempesta e pensare:


“Okay, Universo, non so se volevi distruggermi o rendermi più brillante, ma ti informo che mi hai solo resa più ostinata.”

È aprire quella maledetta porta pesante e renderti conto che sì, cigola, fa resistenza, ti lascia pure un livido…
ma si apre.

E alla fine capisci che non serviva un sole grande.
Bastava uno spiraglio.
Bastavi tu.


“Se oggi ti sembra tutto troppo, ricordati che anch’io mi sono rimessa insieme. A colla e ironia. Funziona.”

Elena M

La favola intera

Cronache di una donna che ha smesso di aspettare il lieto fine e ha iniziato a cucinarlo

C’è un momento, di solito attorno alle tre di notte, quando la città assomiglia a un enorme respiro e tu non riesci a fare il tuo, in cui ti chiedi perché ci incasiniamo così tanto per amore. Non per l’Amore da manuale, quello sano e centrato, ma per quell’amore da giostra emotiva, quello che ti fa credere che l’altro sia il pezzo mancante del tuo puzzle, l’incastro perfetto destinato a completarti.

Siamo stati educati così: alla mitologia della “metà giusta”, dell’anima gemella, del se solo trovassi quella persona lì allora sì che….
E invece no: la realtà arriva e ci mostra pezzi che non entrano, bordi che non combaciano, incastri che sembrano sempre un po’ storti. E noi, come brave apprendiste della favola romantica, ci chiediamo se siamo difettose.

Per noi donne, poi, il copione è ancora più surreale: emancipate ma sempre disponibili, forti ma per niente spigolose, sensuali ma non troppo, brillanti ma non invadenti. La società ci vuole come certe vetrine: perfette, luminose, ordinate… e sempre aperte.

E sullo sfondo, eccole:
le favole.
Principesse che aspettano, cavalieri che salvano, donne fragili che vengono riscattate dal gesto eroico di un altro. Favole che, senza cattiveria, ci hanno educato al bisogno di una mano esterna che ci sollevi, ci redima, ci definisca.

Fino a quando, una notte, o un pomeriggio qualunque, a dire il vero, ti arriva una piccola illuminazione: forse non è l’altro che deve salvarti.
Forse quella mano che aspetti può essere la tua.
Forse dentro di te vivono già la principessa, il cavaliere, la parte che cade e quella che rialza.

Ed è lì che ti viene un’idea un po’ folle, un po’ liberatoria:

vi invito a mangiarle, le favole.
Sì, proprio così.
Mangiatene, fatele vostre, masticatele bene.
E poi digeritele lentamente, con tutto il tempo che serve.

Perché solo quando le digeriamo possiamo trasformarle. Possiamo smettere di interpretare un ruolo e iniziare a scrivere il copione. Possiamo diventare non la metà, non la parte “buona”, non la protagonista passiva… ma la favola intera.

Essere la favola intera significa accettare che dentro di noi convivono parti diverse: la fragile e la forte, la luminosa e la ombrosa, quella che vuole scappare e quella che vuole restare. Significa permettere a queste parti di parlarsi, ascoltarsi, incontrarsi, invece di eleggere una sola come quella “giusta”.

È un lavoro buffo, poetico, potentissimo: scoprire che a volte una parte di te piange e un’altra la consola; una teme e l’altra osa; una cade e un’altra la solleva.
E in quell’incontro, così domestico, così intimo, succede la magia.

Succede che smetti di aspettare qualcuno che ti completi.
Succede che non hai più bisogno di un cavaliere che ti sollevi dal pantano emotivo.
Succede che puoi guardare l’altro non per ciò che ti manca, ma per ciò che puoi condividere.

Perché quando sei la favola intera, non cerchi chi ti salva: cerchi chi ti accompagna.
Non cerchi chi ti completa: cerchi chi ti vede.
E soprattutto, smetti di stare con qualcuno per paura di cadere: ci stai perché insieme si cresce, non perché soli si muore.

Mangiate le favole.
Masticatele.
Digeritele finché non ne sarete nutrite, non schiave.

E quando avrete fatto vostro ogni pezzo, quando avrete trasformato la storia… sarà allora che scoprirete di non essere più una principessa in attesa né un cavaliere in affanno.
Sarete voi, tutte voi, dalla prima pagina all’ultima.

La favola intera.


Alla fine l’unica cosa davvero utile da fare con le favole è mangiarle. Masticale, digeriscile, e lascia che ti nutrano.
Perché l’incastro perfetto non esiste. Chi lo cerca vuole solo un oggetto docile, non una persona intera.

Quando smetti di aspettare chi ti completa, inizi a vedere chi ti rispecchia.
E scopri che l’amore più potente non è quello che ti salva, ma quello che ti permette di stare intera anche quando sei fatta a pezzi.

Tutte le tue parti, quella ferita, quella arrabbiata, quella coraggiosa, devono poter stare insieme. Solo così puoi diventare la tua favola intera, senza chiedere il permesso a nessuno.

Elena M

Porta chiusa? Sto già dalla finestra

Quando il percorso principale è bloccato, inventane uno laterale!

Negli ultimi anni ho vissuto cose che non avevo previsto, che non avevo scelto e che mi hanno lasciata senza fiato. Ho affrontato una relazione che mi ha spezzata nel profondo, una violenza che ha fatto crollare tutte le certezze che credevo di avere. Da quel dolore, però, è nato qualcosa di inaspettato: la mia voce. Una voce che credevo perduta e che invece ha iniziato a farsi sentire proprio quando tutto sembrava finire. Così è nato il mio blog: un luogo sicuro, autentico, mio. E quando finalmente ho avuto il coraggio di condividere quegli articoli, di esporre la mia verità… tutto è stato oscurato di nuovo. Un hackeraggio improvviso, assurdo, come una mano che cercava ancora una volta di zittirmi.

E per un po’, lo ammetto, quella mano ci era riuscita.

A volte la vita ti mette davanti a ostacoli che non avevi chiesto, cadute che non avevi previsto e silenzi in cui nessuno dovrebbe mai ritrovarsi. Io li ho attraversati tutti. Ma oggi, mentre tenevo in mano il mio nuovo telefono, ancora sigillato, ancora pieno di possibilità, ho sentito qualcosa che non provavo da mesi: entusiasmo.

Non un entusiasmo qualunque. Quello che ti vibra nelle ossa. Quello che ti dice: “Ok, è successo tutto questo… e allora? Guarda dove sei ora.” Nei mesi passati ho visto la mia voce spegnersi e riaccendersi, il mio spazio online prima diventare casa e poi scomparire nel nulla, come se qualcuno avesse deciso di premere “mute” proprio quando stavo iniziando a parlare davvero. E sì, per un po’ ci sono cascata: mi sono sentita sconfitta, stanca, fuori combattimento.

Poi, ieri, click.
Non so dire esattamente cosa sia scattato. Forse ero esausta dalla frustrazione. Forse era semplicemente ora. Ma all’improvviso ho capito che stavo combattendo con l’energia sbagliata, bussando sempre alla stessa porta come una donna ostinata sotto la pioggia che continua a citofonare nel posto sbagliato. E se il palazzo ha cento porte?
E se il trucco non è aspettare che ti aprano, ma girare l’angolo e scoprire un ingresso laterale che non avevi visto?

Così oggi mi sono svegliata diversa.
Con una consapevolezza nuova: io non voglio solo riconquistare ciò che era mio.
Io voglio evolvermi.
Tornare dentro, sì… ma come la versione migliore di me stessa.

E quel telefono nuovo?
Non è un acquisto. È una dichiarazione d’intenti.
È il mio “sto tornando”, senza scuse, senza paura, senza bisogno di permesso. Ho deciso che non importa quante volte qualcuno proverà a spegnere la mia voce.
Io, quella voce, la alzerò.
La amplificherò.
La renderò impossibile da ignorare.

Oggi ricomincio.
Con leggerezza.
Con lucidità.
E con una forza che, sinceramente, non pensavo di avere.

E se c’è una cosa che ho imparato è questa:
quando il mondo ti chiude una porta… prova a bussare a quella accanto.
Magari è proprio lì che ti aspetta la versione più potente di te stessa.

Il silenzio non distrugge, prepara

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Ci sono notti in cui sembra che l’universo ti stia zittendo di nuovo.
Notti in cui la vita si ripresenta con lo stesso ghigno di quella violenza che credevi di aver lasciato indietro, e ti toglie ancora una volta la voce.
Ti toglie la luce.
Ti toglie la speranza di aver finalmente imparato a respirare.

Ho iniziato a scrivere questo blog come si inizia una cura.
Non con la pretesa di guarire, ma con la necessità disperata di non morire dentro.
Scrivere è stato il mio modo di gridare quando nessuno ascoltava, di mettere ordine tra le macerie, di dare forma a quel silenzio che troppo spesso viene imposto alle donne, con le mani, con la paura, con la vergogna, con l’indifferenza.

Ho vissuto una relazione tossica, e la parola “tossica” non basta a contenerne la portata.
C’è stato un gesto violento.
C’è stato un abbandono in una notte calda d’estate, in mezzo a una strada, come se fossi diventata un rifiuto.

Eppure, il dolore di chi ama e riceve in cambio il male non ha nome.
Ti trapassa le ossa.
Ti brucia l’anima.
Ti scava dentro fino a non lasciarti più distinguere dove finisce la colpa e dove inizia la sopravvivenza.

Scrivere è stato il mio modo di rimettere insieme i pezzi di quell’anima frantumata.
Un viaggio dentro l’inconscio, come direbbe Jung: lì dove vivono le ombre, ma anche la possibilità di trasformarle in luce.
Perché la guarigione non è dimenticare, è integrare.
È accettare che anche il dolore, l’orrore, la paura, facciano parte della nostra storia.
È sedersi accanto al proprio dolore e dirgli: “Ti vedo. Ma non mi definisci più.”

Così questo blog è diventato una cura, per me e forse anche per chi mi leggeva.
Una piccola costellazione di anime che, nel buio, riconoscevano la stessa ferita e la stessa forza.
Uno specchio in cui finalmente ci si guarda negli occhi e si può dire a se stessi:
“Non è colpa mia.”

Ma il male ha molti volti, e a volte indossa una maschera digitale.
Tutti i miei canali social, le mie parole, la mia voce, sono stati hackerati.
Scomparsi sotto i miei occhi.
Un furto che non è solo informatico: è simbolico.
È la ripetizione di un gesto antico, il tentativo di mettere di nuovo una mano sulla bocca di una donna che osa parlare.

E allora mi chiedo: forse, nel 2025, non siamo ancora pronti ad ascoltare davvero la voce delle donne.
Forse la verità delle nostre ferite è ancora troppo luminosa per chi vive di ombre.
Forse la forza di chi si rialza, di chi trasforma il dolore in parola, in arte, in cura, è ancora troppo scomoda per un mondo che preferisce le donne silenziose, decenti, docili.

Sì, troppo scomoda.
Perché una donna che ritrova la propria voce è una rivoluzione.
È la prova vivente che il controllo è un’illusione, che la paura non vince, che il male non ha l’ultima parola.
È la Fenice che brucia tutto, anche le gabbie mentali e culturali, e dalle sue ceneri genera nuova vita.
E il mondo, forse, non è ancora pronto a reggere tanto splendore.

Questa notte sento di nuovo quella mano invisibile sulla bocca.
Quella che ti sussurra “stai zitta”, quella che ti fa dubitare del tuo valore, quella che ti fa sentire di nuovo sola, in quella stessa strada buia di quattro mesi fa.
Ma c’è una differenza, stanotte.
Adesso so che il silenzio non mi distrugge: mi prepara.
Mi costringe a tornare dentro, a riaccendere il fuoco, a ricordare chi sono.

E allora, tra le lacrime che ancora scendono, mi dico:
“Supererai anche questo.”
E lo so, perché l’ho già fatto.
Perché la mia voce, anche se spenta fuori, dentro continua a cantare.
Perché ogni volta che qualcuno prova a spegnerla, diventa più forte.

E sì, sono arrabbiata.
Ma questa rabbia è sacra.
È l’energia primordiale di chi rifiuta di essere vittima, di chi trasforma la ferita in conoscenza, la caduta in forza.
È la mia Anima che torna a parlarmi, e io la ascolto.
Non la lascerò mai più zittire.

Perché la verità è questa:
Puoi hackerare i miei profili, ma non la mia voce.
Puoi cancellare i miei post, ma non la mia storia.
Puoi provare a spegnere la mia luce, ma non la mia fiamma.

E allora scrivo.
Scrivo ancora.
Scrivo per me, per le donne che non riescono ancora a farlo, per quelle che stanno cercando il coraggio di dire “basta”.
Scrivo perché tra le parole ritrovo la mia voce, e con lei la forza di sentirmi viva.
E mentre scrivo, sento di nuovo il cuore battere.

E capisco che sì, sarò voce. Anche stavolta.


Il male esiste, e a volte sembra onnipotente.
Prova a spegnere la voce, a piegare la volontà, a lasciare solo paura e ombre.
Ma chi lo affronta, chi lo osserva negli occhi senza farsi definire da esso, scopre che il male può diventare testimonianza, conoscenza, energia per resistere.
Non è consolazione, non è giustizia: è la consapevolezza che, anche quando il male colpisce, c’è chi rifiuta di lasciarsi cancellare, chi trova dentro sé stesso la forza per continuare, per proteggere ciò che resta, per non consegnarsi al suo dominio.

E io ve lo dico, dal mio piccolo spazio nel mondo: con tutto quello che ho, con ogni parola che riesco a scrivere, vi mando un pezzo di cuore. Perché, alla fine, sopravvivere significa anche questo, continuare a sentirsi vivi, insieme, un passo alla volta.

Con affetto

Elena

Il bugiardo che odiava le bugie

Ci sono uomini che odiano le bugie… a patto che non siano le loro. Che parlano di verità come di una religione, finché non devono inginocchiarsi davanti a essa.

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Ci sono uomini che fanno della trasparenza un vanto, mentre scelgono con cura la luce che li fa sembrare migliori.

Lui era così.

L’uomo che mi accusava di mentire, di manipolare, di distorcere la realtà. Il paladino dell’onestà, quello che “accanto a me si cammina a testa alta”.

Oggi, pur di restare a testa alta davanti al mondo, è disposto a camminare immerso fino al collo nella menzogna.

C’è un’ironia quasi divina in tutto questo: l’uomo che odiava le bugie è diventato un bugiardo seriale.

Uno che riscrive i fatti per salvare la propria reputazione, che reinventa i finali per non ammettere il fallimento.

Uno che parla di me come se fossi io l’inganno, solo per non vedere che l’unico falso della storia è la sua immagine riflessa.

È curioso come i manipolatori finiscano sempre per proiettare sull’altro ciò che non riescono a gestire di sé. Ti accusano di quello che fanno, ti condannano per quello che sono.

E lo fanno con naturalezza quasi poetica, come se la verità avesse davvero bisogno del loro permesso per esistere.

Mi ci è voluto tempo per capire che la loro guerra non è contro di te, ma contro lo specchio. Tu sei solo il riflesso che disturba, quello che non restituisce l’immagine idealizzata.

E allora ti rompono, ti sporcano, ti chiamano “bugiarda”, pur di non vedere che la crepa è la loro.

Quella parola non era rivolta alla realtà, ma a me: uno strumento per distrarmi, per far scivolare la colpa lontano da loro, per confondere il senso del dolore e della violenza subita.

Oggi lo guardo e vedo l’assurdo. Un uomo che costruisce bugie su bugie per difendere una reputazione che, se fosse reale, non avrebbe bisogno di difese.

Un uomo che inventa storie, traveste la colpa da nobiltà e chiama “preoccupazione” la propria necessità di restare in scena.

Un uomo che parla di valori mentre ne svuota il significato.

Il narcisismo ha questa comicità tragica: ti convince che basti raccontare la verità meglio degli altri per renderla vera. Ma la verità non si racconta, si sostiene. E chi mente per apparire giusto finisce inevitabilmente per diventare la caricatura di se stesso.

Così eccolo lì, il mio bugiardo che odiava le bugie, immerso nel suo fango lucido, intento a lucidare la propria immagine come un trofeo.

E mentre lui gioca a tenere in piedi la favola, io ho smesso di giocarci dentro.

Non mi interessa più correggere la sua versione. Mi basta sapere che chi è costretto a reinventare la realtà per salvare la faccia ha già perso: la dignità, la pace, la verità.

Alla fine, le bugie hanno un solo difetto: durano solo finché nessuno guarda troppo da vicino.

E quando la vernice si screpola, sotto non resta altro che quello che ha sempre cercato di nascondere: paura, insicurezza, vuoto.Un uomo nudo di verità, vestito solo di finzione.

Adesso cammino lontano dal suo teatro, senza scenografie, senza dover riscrivere nulla.

Il regalo più grande che mi ha fatto è stato lasciarmi andare.

Lasciarmi sola, senza maschere, senza pretesti. Perché solo chi smette di recitare accanto a un bugiardo può finalmente vedere il mondo e se stesso chiaramente.

Ecco il paradosso: mentre lui lotta per sembrare migliore agli occhi degli altri, io vivo nella mia realtà.

E in quella chiarezza, nella mia verità, c’è la più potente delle libertà: la leggerezza di non dover più convincere nessuno, neanche me stessa.

Mi hanno silenziata, ma non mi hanno fermata

Quando la libertà di raccontare diventa una forma di resistenza

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C’è un momento, dopo anni di dolore, in cui ricominci a respirare. Non come prima, perché dopo certi amori non si torna più uguali, ma abbastanza da sentire che qualcosa dentro di te si è rimesso in moto. È quel momento fragile e prezioso in cui cominci a rivedere la luce in fondo al tunnel, quando capisci che la sopravvivenza non è più l’unico obiettivo, ma l’inizio di una nuova vita. E proprio lì, quando stavo finalmente imparando a camminare di nuovo, è arrivato il silenzio.

Un silenzio imposto, digitale ma profondo.
Un giorno i miei profili social, quelli dove condividevo i miei articoli, le mie riflessioni e le mie cicatrici trasformate in parole, sono scomparsi. Disattivati. Cancellati. Spariti nel nulla, come se non fossero mai esistiti. Nessuna spiegazione, nessuna mail, nessun preavviso. Solo quel vuoto familiare che conosce bene chi ha già sperimentato la manipolazione: la sensazione di essere di nuovo cancellata, questa volta non da un uomo, ma da un sistema.

Forse è stato un caso. O forse no. Forse, ancora una volta, qualcuno ha deciso che la mia voce dava fastidio. Che i miei racconti erano troppo veri, troppo scomodi, troppo simili a una confessione che qualcuno non voleva leggere. Forse è stato proprio lui, quello che ha ispirato tante delle mie parole, quello che ha reso il mio amore un campo di battaglia, a premere metaforicamente il tasto “silenzia”.

Non ho mai fatto nomi. Non ho mai puntato il dito. Mi sono limitata a raccontare me stessa, la mia esperienza, le ferite e la lenta rinascita di una donna che aveva creduto nell’amore sbagliato. Ma in un mondo dove tutto deve restare patinato e muto, la verità è rivoluzionaria. E le rivoluzioni fanno paura.

Scrivere, per me, non è mai stato solo un atto creativo. È stata la mia terapia, la mia ribellione, la mia salvezza. Ho scritto per sopravvivere, per non dimenticare, per dare un nome a quel dolore invisibile che nessuno vedeva. Ho scritto per ricomporre i pezzi di me che lui aveva sparpagliato, e per trasformare la rabbia in consapevolezza.

E poi, improvvisamente, qualcuno ha cercato di spegnere la mia voce.
Ma se c’è una cosa che la violenza insegna, è che il silenzio non guarisce.
Il silenzio uccide.

Siamo nel 2025, e ancora oggi una donna che parla di violenza, di manipolazione o di abusi emotivi viene vista come una minaccia. Si dubita di lei, si minimizza, si ride, si cambia discorso. Ma non si ascolta. Si preferisce zittirla piuttosto che guardare in faccia la realtà: che la violenza non è solo un pugno, ma anche una parola, un silenzio, un controllo, una cancellazione.

Il mio blog, artediamarsimale.blog, non è un diario di vendetta, ma un laboratorio di guarigione. Un luogo dove il dolore si trasforma in arte, dove la vulnerabilità diventa forza, e dove l’ironia serve a respirare tra una verità e l’altra. Scrivo con il cinismo dolce di chi ha amato troppo e ha imparato a ridere anche delle proprie ferite. Scrivo perché credo che il racconto possa salvare: me e chi legge.

Quando ho visto i miei profili sparire, ho sentito la stessa impotenza di quando lui decideva di ignorarmi, di farmi dubitare di me stessa, di farmi sentire invisibile. Ma poi ho ricordato una cosa: che questa volta non ho bisogno del suo consenso. Né del consenso di chi non vuole sentire.

Perché il mio spazio, le mie parole e la mia verità non possono essere eliminate con un clic.
Possono chiudermi gli account, ma non possono fermare la mia rinascita.
Possono tentare di cancellare la mia voce, ma non il messaggio che porto dentro.

Scrivere di dolore è un atto di coraggio. Pubblicarlo è un atto politico.
E in un mondo dove la verità femminile è ancora disturbante, continuare a scrivere è la mia forma di resistenza più radicale.

A chi ha provato a zittirmi, rispondo con la calma feroce di chi ha smesso di avere paura: io continuerò a parlare. Per me, per le altre, per chi non ha ancora trovato le parole.

Perché ogni volta che una donna racconta la sua ferita, guarisce un pezzo di mondo.
E anche se mi hanno silenziata, non mi hanno fermata.
Anzi, mi hanno dato un motivo in più per continuare.

A tutte le donne che stanno leggendo queste righe, voglio dire una cosa semplice: non lasciate che vi zittiscano.
Non importa chi prova a farlo: un uomo, un sistema, o una piattaforma che preferisce l’apparenza alla verità.
Ogni volta che scegliete di parlare, di raccontare, di denunciare anche solo con un post, un disegno, una frase, state costruendo un ponte verso la libertà.

Non serve essere eroine, serve solo essere vere.
E la verità, quando è detta con il cuore, è la forma più potente di rivoluzione.

Io continuerò a scrivere, e continuerò a pretendere che Meta risponda di quello che è accaduto. Perché lasciare che un hacker, o chiunque altro, possa mettere a tacere una voce femminile significa dare la vittoria a tutto ciò che vogliamo combattere: la violenza, l’abuso, la paura.

Se una donna non può più raccontare la propria storia senza essere censurata, allora abbiamo fallito come società.

Ma io non ci sto.
Ho smesso di farlo il giorno in cui ho capito che tacere non mi avrebbe mai salvata.

Continuerò a parlare, anche se la mia voce dovesse essere solo un sussurro tra mille urla digitali. Perché certe verità non hanno bisogno di megafoni: basta dirle, e già cambiano l’aria.

E a tutte le donne che mi leggono, quelle che hanno amato male, creduto troppo, o semplicemente dato tutto a chi non sapeva cosa farsene, voglio dire questo: non smettete di parlare.
Scrivete, raccontate, urlate o ridete di tutto quel dolore finché non smette di farvi paura.

Perché il silenzio è l’arma di chi teme la verità.
E la parola, beh… la parola è la nostra libertà più grande.