“Ti sei mai sentita viva, speciale, scelta… eppure, giorno dopo giorno, consumata da qualcuno che diceva di amarti? Ti guardi allo specchio e non riconosci più te stessa, fragile e ferita, come se ogni respiro fosse un peso. Questo è il mio racconto sull’arte di amarsi male: di come sono stata manipolata, di come ho dubitato della mia memoria e della mia voce, e di come, tra le macerie di quell’inganno, ho cominciato finalmente a vedere.“
All’inizio sembra amore. Di quelli che ti travolgono, che ti fanno credere che tutto il dolore del passato serviva solo per arrivare fin lì. Mi guardava come se fossi la risposta a tutte le sue domande, la persona che aspettava da sempre. Mi diceva che ero l’unica, che con me era diverso, che non riusciva a staccarsi perché “non aveva mai provato niente di simile”. E io ci ho creduto. Ho creduto che fosse destino. In realtà era un incantesimo. Il più crudele di tutti.
Perché mentre io costruivo un legame, lui costruiva un teatro. E in quella scena perfetta, io recitavo la parte della donna speciale, quella che lo avrebbe salvato. Non sapevo che nel copione era già scritta anche la mia caduta.
Poi, un giorno, qualcosa è cambiato. Non so dire quando, forse dopo sei mesi, forse un po’ di più. Ha cominciato con le critiche sottili, quelle che sembrano piccole ma scavano dentro: “Non sei più quella di prima.” “Sei troppo sensibile.” “Hai capito male.” Ogni volta una lama, nascosta sotto il tono calmo, l’aria sicura di chi “sa come stanno le cose”. E io, piano piano, ho smesso di fidarmi di me stessa.
Mi diceva che ricordavo male, che inventavo, che ero confusa. Ero arrivata a dubitare della mia memoria. Della mia percezione. Della mia voce. Ero diventata minuscola. Camminavo sulle uova, cercando ogni giorno di non dire, non fare, non pensare nulla che potesse “disturbarlo”. Mi svegliavo sperando che quella fosse la giornata in cui mi avrebbe guardata di nuovo come all’inizio. Non arrivava mai.
È così che si muore da vivi. Un centimetro alla volta. Nel silenzio. Nell’attesa. Nell’illusione che se ami abbastanza, l’altro smetterà di farti male.
E poi, come se non bastasse, è stato lui a lasciarmi. Con una freddezza che ancora oggi mi gela. Dopo avermi svuotata, mi ha gettata via come se fossi un errore da cancellare. Mi ha ignorata, come se non fossi mai esistita. E lì ho toccato il fondo. Un fondo nero, dove non c’è più suono, né senso, né respiro.
Ti senti spezzata, sbagliata, ridicola per aver creduto così tanto. Ma è proprio lì, tra le macerie, che succede qualcosa: la lucidità ricomincia a filtrare.
Inizi a vedere. A ricordare le manipolazioni, le bugie, il gaslighting. A capire che non eri tu quella “troppo sensibile”. E che quell’amore non era amore: era controllo, dipendenza, teatro.
Perché nel silenzio, quando non hai più nulla da perdere, ti accorgi che hai ancora te stessa. Ho iniziato a ricordare. A mettere insieme i pezzi. Ho capito che non ero pazza: ero stata manipolata. Che non ero debole: ero stata ferita. E che non ero “troppo sensibile”: ero solo viva.
Oggi so che l’amore non è ciò che ti fa tremare. Non è ciò che ti spegne la voce. Non è chi ti guarda con ammirazione per poi distruggerti con il dubbio. L’amore vero non ti annebbia: ti illumina. Non ti consuma: ti costruisce. Non ti fa camminare sulle uova, ma a piedi nudi, libera, sulla terra ferma della tua verità.
Sì, ho sofferto. Ho pianto fino a svuotarmi, ho urlato nel silenzio, ho odiato me stessa per averci creduto. Ma oggi, a distanza di mesi, c’è un nuovo spazio dentro di me: limpido, solido, mio. Non mi serve più che qualcuno mi scelga. Perché finalmente mi sono scelta io.
Ora so che l’arte di amarsi male è una lezione. Una ferita che si trasforma in sapienza. Una cicatrice che ti insegna la forma dell’amore autentico.
L’amore non è un teatro, non è una lotta, non è una cura. L’amore è casa. E se non ti senti a casa, non è amore.
Mi sono amata male, ma ho imparato. Ho attraversato la mia distruzione per incontrare la mia verità. E da lì non torno più indietro.
L’arte di amarsi male non è un fallimento: è solo il primo capitolo dell’arte di rinascere bene.
E se anche tu che leggi ti senti svuotata, persa, annientata… ascoltami: non è la fine. È solo l’inizio del ritorno a casa.
Ci sono momenti in cui le parole diventano troppo pesanti per restare dentro. Ci sono frasi che ti trafiggono e ti ricordano tutto quello che hai dato, tutto quello che hai creduto vero, e che oggi sembra non contare più nulla. Oggi scrivo perché devo dare voce a questo dolore, perché devo urlare su carta quello che il cuore non riesce a contenere. Non cerco consolazione, non voglio spiegazioni. Voglio solo liberarmi del vuoto che mi divora.
Non si è mai davvero chiusa, ma oggi brucia come se fosse fresca. È una di quelle giornate in cui il dolore non accenna a farsi lieve, in cui i ricordi non consolano, ma colpiscono come lame. Oggi mi manchi. Mi manchi terribilmente. Perché io ero davvero innamorata. Io tenevo a noi, io ci credevo fino in fondo. Ogni gesto, ogni parola, ogni tuo abbraccio aveva per me un valore assoluto. Non era un gioco, non era un passatempo, era vita. Era la mia vita intrecciata alla tua.
E invece adesso mi ritrovo qui, sommersa da domande che non hanno risposta.
Due giorni fa ci siamo rivisti. Abbiamo parlato a lungo. Ma una tua frase mi risuona dentro senza tregua:
“Cosa sono, in fondo, un anno e nove mesi?”
Un anno e nove mesi. Per te, solo un numero. Per me, un universo.
Non erano giorni da contare, erano respiri condivisi. Erano notti in cui bastava voltarmi e sapere che c’eri. Erano mani intrecciate, sorrisi che scioglievano i miei silenzi, sguardi che non avevano bisogno di parole.
Come puoi ridurre tutto questo a un tempo trascorso? Come puoi dire che non è niente?
Non è il tempo, è quanto ti ho amato. È come ti ho amato. E oggi non riesco a riconciliarlo con la freddezza che porti nelle tue parole. Chi sei diventato? Chi è quest’uomo capace di guardarmi senza tremare, di pronunciare frasi che pesano come colpi? Quanto valore hai dato al mio cuore, se adesso lo lasci in frantumi senza voltarti indietro?
Eppure tu c’eri. Tu mi stringevi, tu mi scaldavi, tu mi facevi credere che fossi la tua casa, il tuo rifugio. Non me lo sono inventato: l’ho vissuto. Ti ho visto, ti ho sentito, ti ho amato. Io non ero sola. Ed è proprio questo a straziarmi: sapere che quell’uomo che allora mi amava adesso non c’è più. O forse c’è ancora, ma lo hai sepolto sotto strati di freddezza e distanza. Sono incredula.
Non ti riconosco.
E non riconosco neanche più me stessa. Le lacrime non si fermano. Ogni ricordo che dovrebbe accarezzarmi diventa invece un coltello. Mi manca tutto: la tua voce, le tue mani, la normalità di un “noi” che mi sembrava eterno. Mi manca persino la certezza che, al di là del mondo, ci fossi tu. E allora mi domando: se è stato amore, perché oggi non resta nulla? Se era vero, perché è finito così? E se era vero per me, lo era anche per te? O sei stato tu a cambiare, a lasciar cadere tutto come se fosse solo sabbia tra le dita?
Nietzsche diceva: “La memoria dice: ho fatto questo. Il cuore dice: non posso averlo fatto.” Ed è lì che vivo adesso, sospesa tra la memoria che mi parla di un amore vivo, reale, tangibile, e il presente che mi sbatte in faccia la sua assenza. Oggi non c’è speranza. Non c’è pace. Non c’è respiro. Oggi ci sei solo tu che manchi.
E io che non smetto di chiedermi come sia possibile.
Ci sono momenti nella vita che ti strappano il respiro. Momenti in cui scopri che chi diceva di amarti può ferirti più profondamente di chiunque altro. Momenti in cui il cuore si frantuma in silenzio, e ogni lacrima sembra dissolversi nel nulla. Questa è la storia di un dolore che spezza, e di come da quelle crepe sia possibile nascere più forti. Questa è la storia di come, dalle ceneri di chi eri, può nascere una Regina.
Ci sono estati in cui torni abbronzata, con la pelle dorata e il sorriso rilassato delle riviste patinate. E poi ci sono estati come la mia, in cui torni pallida, gonfia di lacrime e con il cuore ridotto in macerie.
Ho passato le mie ferie estive a contorcermi nel letto, prigioniera di un dolore che non dà tregua. Non il dolore di una caduta, non quello di una febbre alta: il dolore inflitto da chi diceva di amarmi. L’uomo che si definiva il mio compagno mi ha riservato il peggior trattamento che una mente innamorata possa concepire: abbandono e indifferenza assoluta.
Se n’è andato in una calda notte d’estate, insensibile alle mie lacrime e alla mia disperazione. Nei giorni successivi, il silenzio: nessuna telefonata, nessun messaggio, neppure un “come stai?”. L’indifferenza vera ti fa a pezzi più delle urla; gela il sangue più delle cattiverie dette a caldo. Con la stessa freddezza con cui si abbandona un cane in autostrada, senza la minima traccia di rimorso.
Così ho conosciuto un dolore che non si descrive: si sopravvive. Una valanga che travolge, schiaccia, frantuma. Ho sentito le viscere strapparsi, la testa esplodere in un colpo secco, il respiro mancare. Solo Dio sa quante lacrime ho versato e quante volte ho creduto di non rialzarmi.
Eppure, qualcosa si è spezzato. E insieme a quella rottura, qualcosa è nato.
Per tutta la vita ho avuto la sindrome della crocerossina: empatica, indulgente, pronta a giustificare chiunque. “Lui è così perché il padre aveva tratti istrionici… lui è così perché la madre non era accogliente… lui è così perché i genitori lo hanno abbandonato troppo presto”. Un elenco infinito di attenuanti che nella mia testa suonavano come scuse. Ho giustificato tradimenti, freddezze, abbandoni. Io, con il bicchiere sempre mezzo pieno, pronta a vedere il lato positivo anche mentre mi caricavo addosso i dolori non miei.
Oggi so che era una colossale stronzata.
Le persone scelgono chi vogliono essere. E se scegli di ferire, hai scelto di essere qualcuno che ferisce. Punto.
Non c’è psicoanalisi che tenga, non c’è “non sono stato amato abbastanza” che assolve chi ti calpesta. La responsabilità di amarsi, di amare e di non distruggere gli altri è personale.
Io, invece, sceglievo male. Mi innamoravo di cuori agonizzanti nascosti dentro ego smisurati, convinta che il mio amore potesse salvarli. Non era amore: era una trappola.
Poi, due notti fa, Elena è morta.
Ho celebrato il suo funerale in silenzio. L’ho ringraziata per la dedizione con cui ha amato, per la sua ingenuità luminosa, per la sua ostinazione nel credere ancora nel bene. L’ho abbracciata un’ultima volta e l’ho lasciata andare.
Dalle sue ceneri è nata una Regina.
Una Regina, una donna che ha imparato a difendere se stessa e il proprio cuore.
Le Regine non si accontentano delle briciole. Difendono confini, tempo, corpo, parola. Custodiscono la loro energia come fosse oro e non la sprecano per chi non sa cosa farsene. Tendono la mano solo a chi chiede aiuto davvero e conosce il rispetto; non hanno pietà per i furbi, per i vigliacchi, per chi rifiuta di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Non sono crocerossine in cerca di casi umani, né vittime sacrificali di un amore tossico.
Eppure, proprio perché hanno conosciuto il dolore, possiedono una capacità di amore smisurata. Un amore che non si piega alla disperazione, che non mendica, che non elemosina attenzioni. Le Regine sanno essere misericordiose: sanno perdonare chi si avvicina con umiltà, accogliere chi desidera crescere, donare calore a chi ha il coraggio di chiedere. La loro grandezza non sta solo nella forza con cui tengono lontani gli impostori, ma nell’immensità con cui abbracciano chi merita il loro regno.
Camminano a testa alta, senza chiedere permesso, eppure portano nel cuore la capacità di riempire il mondo di amore. Non più l’amore disperato e sacrificato di una crocerossina, ma un amore saldo, rispettoso, eterno: l’amore per se stesse.
Non è odio a renderle austere. Non è rabbia a forgiare la loro corazza. È l’amore più grande che esista, quello che basta da solo e che, quando incontra chi lo merita, si espande fino a illuminare il mondo.
Non sono qui per salvare nessuno. Il mio regno, da oggi, accoglie solo chi merita il mio rispetto.
È da questa scelta, da questa chiarezza di cuore e mente, che nascono le Regine.
Così nasce una Regina.
La vera forza non nasce dalla vendetta, né dalla rabbia, ma dall’amore incondizionato che sai dare a te stessa. Chi diventa Regina non aspetta permessi, non elemosina rispetto, non si piega davanti a chi ferisce: costruisce il proprio regno e decide chi può entrarvi.
Due settimane di ferie e una carriera da drama queen. Sì, avete letto bene. Mentre tutti sognano mare, sole e relax, io ho scelto lacrime, cocci e riflessioni esistenziali… in pieno stile “dramma romantico in vacanza”. Se pensavate che le vacanze fossero sinonimo di felicità, preparatevi a cambiare idea.
Le mie ferie. Due settimane che avevo immaginato come un’oasi dorata: mare, sole, risate, coccole… e invece le ho trascorse a piangere. Solo a piangere. Fantastico, vero? Chi ha bisogno di relax quando può avere lacrime come compagne di viaggio?
Erano più o meno programmate: io e lui, un po’ dai suoi genitori, un po’ dai miei, il mare e una piccola fuga fuori porta per staccare un po’. Avevamo accumulato stress: il mio lavoro triplicato, la sua nuova casa da ristrutturare, il tempo che mancava sempre e per tutto. Sognavo ferie ad occhi aperti, una coccola per noi, uno spazio per ritrovarci… e invece lui ha deciso che era il momento perfetto per staccarsi da me. Bravo. Tempismo impeccabile, davvero degno di un Oscar.
Come un fulmine a ciel sereno, è arrivato il frastuono: distruzione silenziosa e devastante. Mi sono ritrovata sola, circondata dai cocci dei nostri sogni, frammenti di me, di lui, di noi. Ho provato a ricomporre tutto… ma cadeva dalle mani come sabbia. Ho implorato, supplicato. Prima lui, poi Dio. Ho cominciato a pensare che entrambi stessero facendo finta di non sentire.
Ho passato giorni a contorcermi nel letto, dolore ovunque, in ogni singola parte del corpo, chiedendomi “perché?”. Negli ultimi dieci anni la vita non è stata esattamente tenera: terremoto, malattia, divorzo… e quando lui è arrivato, per un attimo ho creduto che l’universo mi stesse facendo finalmente un regalo. Finalmente qualcuno che poteva far respirare il mio cuore, far sorridere di nuovo i miei giorni, rimettere insieme i pezzi sparsi della mia vita. E invece… il colpo di grazia. Dolore così potente da piegare le ginocchia e togliere il respiro. Ho pianto come se le lacrime potessero riempire il mondo intero.
La prossima volta, universo, potresti mandarmi qualcosa di più leggero? Qualcosa che non richieda un manuale di sopravvivenza emotiva e una laurea in resilienza? Grazie.
La verità? Non c’è un perché. Nessuna morale, nessuna logica. Il dolore arriva, ti schiaccia, e il mondo continua a girare come se niente fosse. Ho scelto di osservarlo, di lasciarmi attraversare da lui, di non oppormi più: inutile resistere.
Dopo giorni a tentare di salvare i cocci, li ho buttati. Perché restare aggrappati a ciò che non è più… è da masochisti. La fiducia, le promesse, le carezze… tutto è ieri. Non era amore. E se non lo è, allora non resta che lasciarlo andare.Non lo odio. Non potrei. L’ho amato, e questo amore non si cancella con la rabbia. Sta dove deve stare, lontano da me. Le ferie sono finite, domani torno a lavoro. Fino a ieri non sapevo se sarei stata in grado di tornare… oggi invece sì. Oggi sono pronta a ricominciare.
Ho lasciato andare l’idea di me che avevo con lui, l’immagine di noi che non esiste più. Il passato resta lì, una cicatrice che mi ricorderà quanto ho amato e quanto sono stata ingenua. Ma sopravvivere serve anche a questo: a capire quanto possiamo essere forti, quanto possiamo rialzarci. E a riconoscere che non tutto quello che luccica è amore, e nemmeno tutto ciò che promette felicità lo è davvero.
Ciò che non c’è più, semplicemente, non c’è più. Resta solo questo momento, solo noi, qui e ora. E forse, nella consapevolezza di questa libertà, c’è una forma di piacere sottile: la soddisfazione di non essere più intrappolata dalle illusioni, la certezza di poter sorridere anche quando tutto sembra andare a pezzi.
Presto mi prenderò qualche giorno per recuperare le ferie che non ho avuto. Mi sono dimenticata di sorridere, ma tornerà. Perché la vita va avanti, e io voglio viverla. Anche se con un pizzico di cinismo verso tutto ciò che pensavamo di sapere sull’amore e le sue promesse.
E alla fine, forse il vero lusso non è il mare o il sole o le ferie programmate… ma il poter scegliere di alzarsi, guardare i cocci e pensare: “Ok, universo, grazie per avermi ricordato chi sono davvero.”
La vita non ci deve spiegazioni, e il dolore non chiede permesso. Ma ogni ferita, ogni lacrima, ogni coccio sparso ci insegna qualcosa: chi siamo, cosa vogliamo e quanto siamo capaci di ricominciare. Alla fine, l’unica certezza resta il presente, e la scelta di vivere, davvero, anche quando tutto sembra frantumato.
Between Flight and Return: The Love You Never Understood
Seduta al mio tavolo, con un bicchiere di vino troppo pieno e il cuore troppo vuoto, mi sono chiesta: perché quando qualcuno se ne va, lascia dietro di sé un’eco che fa più rumore della sua presenza? Forse amiamo davvero male, ci illudiamo che due cuori spezzati possano ricomporsi solo incollandosi insieme. Ma l’amore, quello autentico, non ha bisogno di stampelle: sa stare in piedi da solo, sa restare, e soprattutto… sa tornare.
Sitting at my table, with a glass of wine too full and a heart too empty, I asked myself: why is it that when someone leaves, they leave behind an echo louder than their presence ever was? Maybe we really do love badly. We fool ourselves into thinking that two broken hearts can be mended just by gluing them together. But love—the real kind—doesn’t need crutches. It knows how to stand on its own, how to stay, and above all… how to come back.
Ho bevuto un po’. E, paradossalmente, è proprio quando il bicchiere è vuoto che la verità si riempie.
Il mio compagno se n’è andato. Una notte d’estate, calda, profumata di gelsomino e bugie. Ha preso le sue cose e con esse ha preso anche me, strappandomi via da me stessa. E io resto qui, a chiedermi: quando ci fidiamo davvero di qualcuno, siamo mai pronte a quando ci abbandona?
“Dovevo salvare me stesso”, mi ha detto. E allora mi chiedo: salvarti da cosa? Da me? O dal coraggio che non hai mai avuto?
Non entrare in una relazione se per stare in piedi devi far tacere i tuoi fantasmi, se pensi che l’amore sia un teatro dove recitare un copione già scritto. L’amore non è un sipario che si chiude all’improvviso. L’amore è una casa che ti accoglie anche quando arrivi con le scarpe sporche e il cuore a pezzi.
Io le mie ombre le ho messe in luce. Le ho esposte, tremando, nuda e vulnerabile. Non è questo l’amore? Guardarsi senza veli, rimanere nonostante la paura, evolvere insieme?
E invece no. Io ho dato il mio cuore a un regista che voleva solo applausi facili. Ho vissuto un teatrino di sorrisi a intermittenza, senza capire che, dietro il sipario, qualcuno stava già preparando l’uscita di scena.
Ma ditemi: cos’è l’amore se non posso mostrarmi nuda, disarmata, imperfetta? Cos’è l’amore se non mi lascia la libertà di sbagliare e la forza di restare?
Un amore che non ti smuove, che non ti spezza e non ti ricostruisce, non è amore. È un analgesico da banco. Ti anestetizza, non ti cura.
Allora, se non sei pronto, non venire. Maschera pure la tua vita con la neutralità, inventati un carnevale di felicità di cartapesta, e scappa. Ma lascia stare le donne vere. Quelle che ti vedono, anche dove non vuoi essere visto.
Qualche giorno fa ho raccolto un piccione caduto dal nido. L’ho amato, nutrito, curato. Quando è stato pronto, ho aperto la finestra e l’ho lasciato volare. Il volo più bello è quello che sceglie la libertà.
Dopo due giorni era lì, di nuovo sul mio balcone. Libero. Ma tornato. E mi ha insegnato qualcosa che tu non hai mai capito: l’amore è fatto di andare… ma anche di tornare. Sempre.
Forse l’amore è proprio questo: l’equilibrio fragile tra il volo e il ritorno. E io, con un bicchiere di vino in mano e il cuore in frantumi, mi domando:
quanti uomini sanno davvero tornare a casa?
I’ve had a drink. And, paradoxically, it’s only when the glass is empty that the truth fills up.
My partner left. On a summer night, warm, scented with jasmine and lies. He took his things, and with them, he took me too—ripping me away from myself. And I’m left here, asking: when we truly trust someone, are we ever ready for the moment they abandon us?
“I had to save myself,” he told me. And I wonder: save yourself from what? From me? Or from the courage you never had?
Don’t get into a relationship if standing on your own means silencing your ghosts, if you think love is just a stage where you act out a script already written. Love is not a curtain that falls without warning. Love is a home that welcomes you even when you walk in with dirty shoes and a broken heart.
I brought my shadows into the light. I laid them bare—trembling, naked, vulnerable. Isn’t that what love is? To look at each other without disguises, to stay despite the fear, to evolve together?
But no. I gave my heart to a director who only wanted easy applause. I lived a little theater of on-and-off smiles, never realizing that, behind the curtain, someone was already preparing their exit.
But tell me: what is love if I can’t show myself naked, defenseless, imperfect? What is love if it doesn’t give me the freedom to fail and the strength to stay?
A love that doesn’t move you, break you, and rebuild you isn’t love. It’s an over-the-counter painkiller. It numbs you—it doesn’t heal you.
So, if you’re not ready, don’t come. Mask your life with neutrality, build yourself a carnival of paper-mâché happiness, and run. But leave real women alone. The ones who see you, even where you don’t want to be seen.
A few days ago, I picked up a pigeon that had fallen from its nest. I loved him, fed him, cared for him. When he was strong enough, I opened the window and let him fly. The most beautiful flight is the one that chooses freedom.
Two days later, he was there—back on my balcony. Free. But returned. And he taught me something you never understood: love is about leaving… but also about coming back. Always.
Maybe that’s what love really is: the fragile balance between flight and return. And I, with a glass of wine in my hand and a shattered heart, can’t help but wonder:
Cosa resta quando qualcuno che credevi sarebbe rimasto per sempre, se ne va? Non parlo di una separazione qualsiasi: parlo del vuoto che ti divora dall’interno, del silenzio che pesa più di mille urla, della ferita che non smette di sanguinare. Scrivo a te, anche se forse non leggerai mai queste parole. Scrivo perché se non posso dirtelo, almeno posso dirlo a me stessa… e a chiunque abbia mai sentito lo stesso gelo nell’anima.
Non so da dove cominciare. Forse dal silenzio che mi hai lasciato, da questo vuoto che non si colma. Oppure dal dolore che mi stringe le ossa e mi impedisce di respirare. O forse dovrei solo partire da ciò che sento: la ferita invisibile che hai lasciato, quella che brucia anche quando cerco di ignorarla.
Mi tenevi stretta. Mi stringevi come se il mondo non potesse toccarmi, come se tra le tue braccia ci fosse un rifugio eterno. Non mi hai mai detto “per sempre”, è vero. Ma tra i nostri sguardi, tra i nostri silenzi, tra le mani intrecciate, c’era la promessa di un noi che sembrava invincibile. Io ci credevo. Io mi fidavo.
E poi sei sparito. E io continuo a chiedermi perché. Perché hai scelto di lasciar andare tutto ciò che avevamo costruito insieme? Perché hai deciso che quel “noi” non bastava più? Questo dolore è un eco che rimbalza in ogni stanza vuota, in ogni battito che sente la tua assenza. È un bruciore costante, un gelo che mi attraversa l’anima.
Eppure, nonostante tutto, ti sento ovunque. Nel vento che mi accarezza il viso, nel riflesso di uno sguardo che incrocio per strada, in una canzone che mi trafigge come un coltello. Sei nell’aria e io non riesco a scappare. Ogni cosa ricorda che non ci sei più.
Com’è possibile? Chi mi abbracciava fino a un mese fa oggi non ha più nulla da dare. Com’è possibile che tu non senta la delusione, l’amarezza, il veleno che hai lasciato dentro di me? Mi hai tolto tutto in una sera d’estate. Io volevo solo stringerti più forte, e invece tu te ne sei andato, portandoti via sogni, speranze e ricordi silenziosi che erano solo nostri.
E io resto qui, rotta, spezzata, incapace di arrendermi. Perché c’è ancora troppo amore dentro di me. Troppi ricordi che gridano nella notte. Troppa fiducia che avevo riposto in te e che oggi è la mia ferita più grande.
Forse un giorno imparerò a convivere con questa assenza. Forse un giorno riuscirò a guardare indietro senza tremare. Ma non oggi. Oggi sento ancora la tua voce nell’aria, il tuo profumo nei tessuti vuoti, la tua presenza che si riflette in ogni ombra della casa. E il pensiero che le tue braccia, che erano la mia casa, ora siano chiuse… ma non per me, mi toglie il respiro. Tu sei libero, e io resto con pezzi di vetro conficcati nel cuore.
Mi fidavo di te. Io mi fidavo. E questa fiducia, adesso, è la ferita che non smette di sanguinare.
Forse è proprio per questo che scrivo: perché se non posso dirtelo direttamente, almeno queste parole possano attraversare il mondo. E a chi ha sentito la stessa assenza, lo stesso gelo tra le ossa, possano ricordare che non siamo soli. Che il dolore, per quanto lacerante, è anche un filo invisibile che ci lega a chi ci ha amato… e che abbiamo amato.
E mentre scrivo queste parole, mi rendo conto di una cosa: forse non era mai stato il “per sempre” che cercavo. Forse l’amore non è fatto per rimanere in un solo cuore, e non è colpa di chi se ne va se non può portarne il peso da solo. Ma io… io resto qui, con le mani vuote e il cuore pieno, imparando lentamente che amare non significa possedere, e che anche il dolore più acuto può insegnarti chi sei.
E allora, in un mondo che continua a girare senza di te, scelgo di restare. Scelgo di sentire. Scelgo di vivere, anche se questo significa sentire ancora ogni pezzo di te in ogni battito del mio cuore.
Perché forse, un giorno, guardando indietro, capirò che l’amore non muore mai del tutto. Si trasforma, sopravvive, e ci insegna che anche quando ci sentiamo spezzati, siamo ancora capaci di sentire. Ancora capaci di amare. Ancora capaci di respirare.
E in quel momento, forse, mi sorriderai in qualche ricordo lontano, e io saprò che tutto ciò che abbiamo avuto non è stato vano.
“Ci sono amori che ci travolgono, ci fanno sentire vivi, ma al tempo stesso ci insegnano quanto possiamo essere fragili. Ho vissuto un amore così: pieno di confidenza, di libertà, di verità. Eppure instabile come una casa sul mare. Forse è questo il paradosso: ci innamoriamo per sentirci interi, e finiamo per scoprirci spezzati. Ma in fondo… se l’amore è anche lavoro, perché ci ostiniamo a credere che il sentimento basti da solo?”
“There are loves that overwhelm us, that make us feel alive, but at the same time teach us how fragile we can be. I experienced such a love: full of trust, freedom, and honesty. And yet, unstable like a house by the sea. Perhaps this is the paradox: we fall in love to feel whole, only to find ourselves broken. But in the end… if love is also work, why do we insist on believing that feelings alone are enough?”
Mi sono sempre chiesta: perché amiamo così male, proprio quando crediamo di amare così tanto?
Ho vissuto una storia in cui ho creduto davvero. Mi sono innamorata profondamente, in modo totale. Eppure, dentro quella totalità, sentivo qualcosa di instabile. Come se le fondamenta tremassero ogni volta che provavo a poggiarci sopra un passo nuovo. Era come vivere in una casa bellissima, ma costruita sul mare: la guardi e ti riempie di luce, ma dentro di te temi sempre che un’onda possa portarsela via.
C’erano i miei timori: la paura di perderlo, la paura di perdermi, la paura di farmi male. E c’erano i suoi, che preferiva non guardare. Io mi accorgevo che con me emergevano, ma lui li ricacciava indietro, come se ignorarli fosse sufficiente a farli sparire. Ma le cose che non affrontiamo non smettono mai di esistere. Restano lì, in silenzio, e prima o poi trovano il modo di farsi sentire.
Eppure c’era dialogo, tanta confidenza. Per la prima volta mi sentivo davvero libera di raccontarmi nuda, senza veli né maschere. E questo, per me, era prezioso. Perché quando puoi esporti così, senza difese, è come se qualcuno ti accogliesse intera: le parti luminose e quelle più scure. Eppure proprio lì, in quello spazio di intimità, iniziavo a vacillare. Perché lui sembrava seguire un copione già scritto, con le sue regole e le sue richieste, senza la volontà di riscrivere nulla insieme.
Io invece credevo che l’amore fosse anche riscrivere. Non solo accogliere l’altro, ma scegliere ogni giorno di lavorare su ciò che ci divide, su ciò che ci spaventa. L’amore non è solo emozione che travolge: è impegno, è cura, è il coraggio di guardarsi dentro e di restare, anche quando diventa scomodo. Senza questa parte, la fiamma che dovrebbe scaldare rischia di bruciare.
Così mi trovavo a oscillare: tra le mie ombre, che cercavo di affrontare, e le sue, che rifiutava di vedere. E più lui si ostinava a chiudere gli occhi, più io sentivo che quelle ombre si muovevano dentro di noi, condizionando tutto. Forse non si accorgeva che insieme avremmo potuto farle diventare un terreno fertile: perché è lì, nelle fragilità condivise, che a volte si cresce di più.
Io lo amavo, lo amo ancora. E sarei rimasta. Avrei scelto di camminare al suo fianco, anche nei sentieri più impervi, perché credevo che insieme potessimo crescere, diventare qualcosa di più forte, più vero. Ma per crescere bisogna volerlo in due.
E allora mi chiedo: è possibile che l’amore non basti? Che la forza dei sentimenti non sia sufficiente a colmare i vuoti che non vogliamo affrontare?
Io so solo questo: se ci fosse stata quella volontà, ci saremmo salvati a vicenda. Forse un giorno… quando le nostre paure avranno perso forza, quando saremo pronti a guardarci davvero negli occhi senza difese, ci ritroveremo. Forse un giorno capiremo che tutto questo non era una fine, ma soltanto un passaggio. E allora sarà diverso: potremo scegliere di restare, di crescere insieme, di trasformare le nostre ombre in radici forti. Io ci credo ancora, nel profondo: che ci sia un tempo per perdersi e uno per ritrovarsi.
E voi? Credete che ci sia sempre un “forse un giorno” per gli amori che ci abitano dentro, o certi addii sono davvero per sempre?
I have always wondered: why do we love so badly, even when we think we love so deeply?
I lived a relationship I truly believed in. I fell completely, utterly in love. And yet, within that totality, I felt something unstable. As if the foundations shook every time I tried to take a new step. It was like living in a beautiful house built by the sea: it fills you with light, but inside, you always fear a wave might wash it away.
There were my fears: the fear of losing him, the fear of losing myself, the fear of getting hurt. And there were his, which he preferred not to face. I noticed that with me they surfaced, but he pushed them back, as if ignoring them could make them disappear. But things we refuse to confront never truly go away. They stay there, silently, and sooner or later find a way to make themselves felt.
And yet there was dialogue, so much trust. For the first time, I felt truly free to bare myself, without veils or masks. And that, to me, was precious. Because when you can expose yourself like that, without defenses, it’s as if someone welcomes you entirely: both your bright parts and your shadows. And yet, right there, in that space of intimacy, I began to waver. Because he seemed to follow a script already written, with his rules and his demands, without the willingness to rewrite anything together.
I, on the other hand, believed that love was also about rewriting. Not just accepting the other, but choosing every day to work on what divides us, on what frightens us. Love is not just an overwhelming emotion: it’s commitment, care, the courage to look within ourselves and stay, even when it becomes uncomfortable. Without that part, the flame that should warm us risks burning out.
So I found myself oscillating: between my shadows, which I tried to face, and his, which he refused to see. And the more he insisted on closing his eyes, the more I felt those shadows moving within us, shaping everything. Perhaps he didn’t realize that together we could have turned them into fertile ground: because it’s there, in shared fragility, that sometimes we grow the most.
I loved him, I still do. And I would have stayed. I would have chosen to walk beside him, even on the roughest paths, because I believed that together we could grow, become something stronger, something truer. But to grow, both must want it.
And so I ask myself: is it possible that love is not enough? That the strength of our feelings is not sufficient to fill the voids we refuse to face?
I only know this: if there had been that willingness, we would have saved each other. Perhaps one day… when our fears have lost their power, when we are ready to truly look into each other’s eyes without defenses, we will find each other again. Perhaps one day we will understand that all of this was not an end, but merely a passage. And then it will be different: we could choose to stay, to grow together, to turn our shadows into strong roots. I still believe, deep down, that there is a time to get lost and a time to find each other again.
And you? Do you believe there is always a “perhaps one day” for the loves that live inside us, or are some goodbyes truly forever?
Il dolore è qualcosa che tutti cerchiamo di evitare, eppure a volte diventa una guida inattesa che ci riporta a noi stessi. Questa è la storia di un momento in cui la sofferenza ha aperto una porta che credevo chiusa, aiutandomi a ritrovare una parte di me che avevo dimenticato.
Pain is something we all try to avoid, yet sometimes it becomes an unexpected guide that brings us back to ourselves. This is the story of a moment when suffering opened a door I thought was closed, helping me rediscover a part of myself I had forgotten.
Da giorni ormai scrivo sull’amore. Sull’esperienza che ho vissuto. Sul dolore che arriva quando due persone si allontanano. Sulle riflessioni che ne conseguono, sul vuoto che ti rimane addosso e su quel senso di impotenza che non sai gestire.
Mi sono esplorata in ogni dove, cercando risposte, cercando un senso. E oggi mi sto chiedendo: non sarà stato un altro modo per fuggire? Per anestetizzarmi? Per cercare un senso a tutti i costi?
Perché quando ti esplori così tanto, delle risposte arrivano. Sono tue, sì, ma per quanto tu possa raccontartele, senti che in fondo c’è qualcosa che non ti appartiene davvero.
Oggi ho fatto una cosa che avevo lasciato nel cassetto da molti anni. Ho dato voce a una parte di me che avevo dimenticato, chiusa in qualche stanza del mio cuore.
Questa mattina, nella chat del gruppo della scuola, ragazzi e ragazze con cui ho condiviso cinque anni meravigliosi di scuola superiore, arriva un messaggio. È di Umberto. Persona straordinaria dall’animo buono, artista meraviglioso, fragile come un cristallo ma molto più prezioso. Scrive nella chat chiedendoci di iscriverci al suo sito.
Lo faccio immediatamente e scrivo nella chat: “Ubi, ci sono.”
Quelle due parole hanno risuonato in me con una potenza straordinaria: uno tsunami, un tornado inarrestabile. Ci sono. Cosa vuol dire, davvero? Certo che ci sono. E il mio cuore lo gridava forte: “Ubi, ci sono.”
Senza pensarci più di dieci secondi, gli scrivo: “Dove ti trovi esattamente?” E nel giro di poche domande e risposte, gli dico: “Arrivo.”
Dopo quindici minuti ero già in macchina, diretta da lui. Nel viaggio ero un vortice di emozioni e di domande: Come mai lo faccio solo adesso?
Finite le scuole superiori ci siamo rivisti solo una volta, a una cena di classe, dopo diciannove anni. Da allora, sono passati altri sette anni. Eppure, era tutto così semplice. Ci divide meno di un’ora di macchina.
Ma dove sono stata per tutto questo tempo?
Umberto è, ed è sempre stato, una persona per cui ho nutrito un bene sincero, di quelli profondi che nessun tempo e nessuno spazio può scalfire. Ma perché lo facevo solo in quel momento?
La risposta è arrivata, disperata e potente, nuda e cruda: perché stai soffrendo. C’è dolore. E quel dolore ha risvegliato una parte di me sopita da tempo. La persona che ero un tempo. Una parte di me.
E dalla mia bocca è uscito un grido vero, di quelli che ti concedi solo quando sei in macchina, da sola, con la musica alta: “Vedi, stupida, a cosa serve il dolore? A ritrovarti! A RITROVARTI.”
Il mio corpo vibrava in un modo diverso. C’era quiete. C’era tremore. C’era pace.
Ho ripensato a quel “ci sono” e ho capito che era anche per me. Era per noi. Era implicitamente anche una domanda: “Ubi, ci siamo?” E c’eravamo. Davvero.
Ho provato una sensazione confortante, dolce. Ma quante volte l’ho provata veramente? Quante volte ho fatto davvero qualcosa per il bene comune, per le persone che amo?
Un tempo ero così. Con meno strumenti, con meno capacità, ma lo ero. Cosa ci accade, davvero, col passare del tempo?
Questo mi ha aperto un quesito che ha trovato la risposta subito dopo averlo posto: Per chi facciamo le cose?
Le nostre azioni, le nostre parole, i nostri gesti più semplici… cosa hanno all’origine? Da quali bisogni sono mossi? A chi sono rivolti?
E qui ho capito: ce la raccontiamo tantissimo. Mentiamo a noi stessi in modo palese e schiacciante. L’ho fatto anch’io, spesso.
La risposta? Lo facciamo per noi stessi. Sempre.
Ci muove quel desiderio di far arrivare l’acqua al nostro mulino, riuscendo a dirci che ci è arrivata da sola… anche se, in realtà, l’abbiamo spinta noi. E magari verso gli altri, sì, ma sempre per tornare a noi.
Forse accade crescendo. Ci allontaniamo da noi stessi, sempre un po’ di più. Dimentichiamo. Chiudiamo in cassetti tante cose.
Capire cosa c’è all’origine delle nostre azioni è una chiave potente. Dovremmo imparare a farlo, seriamente. Concederci il tempo di far emergere le risposte sincere, senza raccontarcela.
Qual è il vero scopo di ciò che facciamo? Sì, lo scopo. Perché c’è sempre.
E solo dopo che avremo ricevuto la risposta sincera da noi stessi, allora sì, in quel momento possiamo agire. Se ce la siamo raccontata, per quanto architettato e progettato nei minimi dettagli, lo scopo emergerà comunque da solo. Vibrerà e si mostrerà netto e chiaro, portandosi dietro la menzogna che lo accompagna. E questa falsa verità avrà i suoi effetti.
Quello che voglio dire è questo: ho scritto tanto. Ho scritto bene, dopo che il mio compagno si è allontanato. Ho viaggiato dentro di me, portato a galla fragilità, dolore, debolezze.
Ma lo scopo, qual è stato?
La risposta è semplice: l’ho fatto sperando che lui mi leggesse. Nel tentativo che lui mi vedesse. Nel disperato desiderio di riportarlo da me.
È stato tutto mosso da quel desiderio lì. Come ogni cosa fatta, direttamente o indirettamente, da quel giorno a oggi. E oggi, finalmente, sono riuscita a dirmelo con sincerità. Ma lo sapevo già.
Sono arrivata a casa di Umberto. Un piccolo paradiso che condivide con il suo compagno. Un eden dove coltiva arte, passione e quella umiltà semplice che lo contraddistingue.
Eppure, è un essere enorme, di una potenza immensa. Puro, genuino, pieno di cicatrici nell’anima che lo hanno reso un capolavoro.
Abbiamo parlato tanto. Il tempo, a volte, si ferma. Non c’erano i diciannove anni e poi i sette passati solo sul calendario: c’eravamo noi e basta. Nella nudità dell’anima che puoi condividere solo con pochi.
Niente maschere, niente artifici, nessun silenzio da riempire per forza. Perché anche nel silenzio, c’eravamo.
Gli scambi sono potenti quando sei visto veramente. Quando quello che dici e fai è davvero allineato a ciò che vuoi e che sei.
Dovremmo imparare a essere così. Sempre. Come possiamo desiderare di essere visti, se non ci lasciamo davvero vedere?
Se lo scopo che ti muove non lo palesi, lo subisci. E non è facile. Ammetterlo forse è ancora più difficile.
Non importa la velocità con cui ti esprimi o agisci. Importa quanto sei stato sincero con te stesso.
Questa mattina, andare da Umberto è stata una decisione velocissima. Lo scopo era chiarissimo: “Ubi, ci sono.” Con tutta la domanda implicita: “Ubi, ci siamo?”
Sì. Ci siamo.
Ed era il succo, l’essenza. Partire è stato ritrovarmi. Ritrovare quella parte vera, sincera. Ritrovare risposte che, forse, un tempo non avevano neppure una domanda.
Solo una certezza: So cosa mi muove. E non lo nascondo.
For days now, I’ve been writing about love. About the experience I lived through. About the pain that comes when two people drift apart. About the reflections that follow, the emptiness that stays with you, and that sense of helplessness you don’t know how to manage.
I’ve explored myself everywhere, searching for answers, looking for meaning. And today I’m asking myself: wasn’t it just another way to escape? To numb myself? To desperately try to find meaning at any cost?
Because when you explore yourself that much, answers do come. They are yours, yes, but no matter how much you tell yourself, deep down you feel there’s something that doesn’t truly belong to you.
Today I did something I had left in a drawer for many years. I gave voice to a part of me I had forgotten, locked away in some room of my heart.
This morning, in the school group chat—the boys and girls with whom I shared five wonderful years of high school—a message arrived. It was from Umberto. An extraordinary person with a kind soul, a wonderful artist, fragile like crystal but much more precious. He wrote in the chat asking us to sign up on his website.
I did it immediately and wrote in the chat: “Ubi, I’m here.”
Those two words resonated in me with extraordinary power: a tsunami, an unstoppable tornado. I’m here. What does it really mean? Of course, I’m here. And my heart was shouting it loud: “Ubi, I’m here.”
Without thinking more than ten seconds, I wrote to him: “Where exactly are you?” And within a few questions and answers, I said: “I’m coming.”
Fifteen minutes later I was already in the car, heading to him. On the way, I was a whirlwind of emotions and questions: Why am I doing this only now?
After high school, we had seen each other only once, at a class dinner, nineteen years later. Since then, seven more years have passed. And yet, it was all so simple. We live less than an hour apart by car.
But where have I been all this time?
Umberto is, and has always been, someone I cared for deeply—one of those feelings that no time or distance can erase. But why did I only do this now?
The answer came, desperate and powerful, raw and naked: because you’re suffering. There is pain. And that pain awakened a part of me long asleep. The person I once was. A part of me.
And from my mouth came a true cry, the kind you only allow yourself when you’re alone in the car, with the music turned up loud: “See, stupid, what’s pain for? To find yourself! TO FIND YOURSELF.”
My body vibrated in a different way. There was stillness. There was trembling. There was peace.
I thought back to that “I’m here” and realized it was also for me. It was for us. It was implicitly also a question: “Ubi, are we here?” And we were. Truly.
I felt a comforting, sweet sensation. But how many times have I really felt that? How many times have I truly done something for the common good, for the people I love?
I used to be like that. With fewer tools, less ability, but I was. What really happens to us as time goes by?
This opened a question that found its answer right after I asked it: Who do we do things for?
Our actions, our words, our simplest gestures… what is at their origin? What needs drive them? To whom are they directed?
And here I understood: we tell ourselves so many stories. We lie to ourselves blatantly and overwhelmingly. I have done it too, often.
The answer? We do it for ourselves. Always.
We’re moved by that desire to bring water to our own mill, managing to tell ourselves it arrived on its own… even if, in reality, we pushed it there. And maybe towards others, yes, but always to come back to ourselves.
Maybe this happens growing up. We move farther and farther from ourselves. We forget. We lock many things away in drawers.
Understanding what lies at the origin of our actions is a powerful key. We should seriously learn to do it. Give ourselves the time to let sincere answers emerge, without fooling ourselves.
What is the real purpose of what we do? Yes, the purpose. Because there is always one.
And only after we have honestly received the answer from ourselves, then yes, at that moment we can act. If we’ve fooled ourselves, no matter how well planned and designed in every detail, the purpose will still emerge on its own. It will vibrate and show itself clearly and sharply, carrying the lie that accompanies it. And this false truth will have its effects.
What I want to say is this: I wrote a lot. I wrote well after my partner left. I traveled inside myself, bringing to the surface fragilities, pain, weaknesses.
But what was the purpose?
The answer is simple: I did it hoping he would read me. In the attempt that he would see me. In the desperate desire to bring him back to me.
It was all driven by that desire. Like everything done, directly or indirectly, from that day to today. And today, finally, I managed to tell myself honestly. But I already knew.
I arrived at Umberto’s home. A little paradise he shares with his partner. A haven where he nurtures art, passion, and the humble simplicity that defines him.
Yet, he is a huge being, of immense power. Pure, genuine, full of scars on the soul that have made him a masterpiece.
We talked a lot. Sometimes time stops. There weren’t nineteen years and then seven just passing on the calendar: it was just us. In the nakedness of the soul you can share only with a few.
No masks, no artifices, no silence to fill by force. Because even in the silence, we were there.
Exchanges are powerful when you are truly seen. When what you say and do is really aligned with what you want and who you are.
We should learn to be like this. Always. How can we want to be seen if we don’t really let ourselves be seen?
If the purpose that moves you is not made clear, you suffer it. And it’s not easy. Admitting it is perhaps even harder.
It doesn’t matter how fast you express yourself or act. What matters is how honest you have been with yourself.
This morning, going to Umberto was a very quick decision. The purpose was very clear: “Ubi, I’m here.” With the whole implicit question: “Ubi, are we here?”
Yes. We are.
And that was the gist, the essence. Leaving was finding myself again. Finding that true, sincere part. Finding answers that, maybe once, didn’t even have a question.
Only one certainty: I know what moves me. And I don’t hide it.
“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.“
(Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry)
Oggi l’ho visto. Lui, quello che ha deciso di andarsene. Irremovibile come una porta blindata: non importa quante chiavi inventi, non importa quante volte tu provi a bussare con mani e cuore.
Ha questa sua dinamica di fuga: appena la relazione diventa tridimensionale, lui si appiattisce e scompare. Dice che ci sono troppe discussioni, come se l’amore fosse un acquario dove l’acqua deve restare sempre limpida e senza correnti. Dimentica il resto — le cose belle, le cure, le attenzioni — come se fossero fotografie scolorite, e tiene sul comodino solo gli scatti sfocati delle litigate.
Eppure oggi, prima che si chiudesse la porta tra noi per l’ennesima volta, gli ho regalato un quadro. Era nato in una sera storta, una di quelle in cui la nostalgia ti scava le ossa e ti fa venire voglia di infilare la testa nel passato per sentire ancora il profumo di casa. Due occhi, uno sguardo profondo. Sullo sfondo, farfalle in volo. Non era solo pittura: era un promemoria. La capacità di andare oltre, di vedere il bello anche dove sembra non esserci. Un invito a ricordarsi che la vita non è meccanicità, non è una sequenza di movimenti perfetti e programmati: è cuore, è emozione, è volo.
Ma mentre lo guardava, ho capito che di quel messaggio non riusciva a vedere che la cornice. E lì ho realizzato che il problema non era il quadro, e nemmeno noi in senso stretto: era il modo in cui affronta — o meglio, evita — qualsiasi attrito.
La psicologia ha un nome per questa danza: evitamento. È il movimento tipico di chi teme l’intimità vera, perché sa che l’intimità porta anche frizione, aggiustamenti, compromessi. Secondo gli studi sull’attaccamento, chi ha uno stile evitante spesso coltiva l’illusione del “se fosse giusto, non dovremmo mai discutere”. Ma i rapporti sani non sono mai anestetizzati: il conflitto non è un sintomo di fallimento, è un laboratorio dove si modellano due mondi in uno.
Dopo neanche due anni, credo fosse normale non aver ancora preso bene le misure. Due quarantenni non sono pezzi di puzzle pronti all’incastro perfetto: siamo più simili a rocce di fiume, che hanno bisogno di tempo e acqua per levigarsi. Lui, invece, sogna un incastro immediato, già smussato in fabbrica. Ma le persone non si fabbricano: si incontrano, si urtano, si aggiustano. Sempre che restino.
E così oggi, mentre stringeva quel quadro, ho pensato che forse non lo vedrà mai davvero. Perché per vedere ci vuole il coraggio di fermarsi, di guardare dentro, di accettare che a volte l’immagine è sfocata, e che il bello lo devi cercare. Forse, in fondo, quel quadro non era per lui. Era per me. Per ricordarmi che, anche quando qualcuno decide di non restare, io so ancora volare.
Ma nel mio cuore lascio una piccola fessura, un’apertura fragile ma vera. Spero che un giorno lui si accorga — davvero — che quella sua fuga, quel muro che ha costruito intorno, lo ha allontanato da troppe cose belle. Che capisca, con quel lento dolore che arriva solo col tempo, che non ne valeva la pena. Spero che un giorno senta il richiamo silenzioso di quel mio quadro, o la carezza inattesa di qualche gesto, di qualche parola, che gli ricordi che la felicità non è un’isola solitaria. Non sarà con me, lo so. E questo fa male, più di quanto avrei mai voluto ammettere. Ma gli voglio bene — davvero — e ovunque vada, qualunque persona scelga accanto, gli auguro di avere il coraggio di restare. Di abbassare le difese. Di lasciarsi finalmente amare.
Ci sono uomini con cui discutere è come ordinare un cocktail al bar: si sorseggia piano, si fa qualche smorfia, ma alla fine è meglio lasciar perdere e cambiare discorso. E poi ci sono quelli con cui la discussione diventa la festa, il momento in cui la musica si alza, le parole si intrecciano e, tra un brindisi e un confronto, nasce qualcosa di vero. Stamattina, in ufficio, un ex collega mi ha fatto riflettere proprio su questa differenza. Perché per alcuni uomini il confronto è un peso insopportabile, mentre per altri è il cuore pulsante di ogni relazione?
Stamattina in ufficio, tra una riunione evaporata e un caffè troppo lungo per essere solo una pausa, un ex collega mi guarda e, con quella naturalezza un po’ morbida che solo chi ti ha già vista sopravvivere alle peggio cose può permettersi, mi chiede: “Ma come mai se n’è andato?”
Ho preso un respiro. Non quello teatrale, ma uno di quelli veri. Quelli che servono a dire una cosa semplice che, però, ogni volta ti punge. “Diceva che discutevamo troppo. Che le discussioni lo appesantivano.”
Lui ha sorriso. Quel sorriso strano che alcuni uomini, pochi, rari, riescono a fare quando sanno che le parole delle donne non sono bombe, ma finestre. “Guarda che sono proprio quelle a tenere insieme una coppia. Le discussioni. I confronti. Ci stanno. Sono sane.”
E in quel momento, tra la macchina del caffè e la stampante in errore, mi sono ritrovata a fare ciò che so fare meglio: ripensare a tutto. Perché com’è possibile che due uomini, stesse molecole, stesso secolo, possano avere una visione così diversa della stessa cosa?
Uno che dal confronto scappa come se avesse visto la bolletta della luce. L’altro che lo accoglie come se fosse un brindisi a fine giornata.
Il mio compagno (ex ormai) odiava discutere. Non “non preferiva”. Non “lo gestiva male”. Lo odiava proprio. Diceva che lo appesantiva. Che gli lasciava addosso una strana stanchezza. Che non serviva parlare così tanto. Che certe cose non servono, forse si sentono, ma non si dicono.
Eppure io, quando parlavo, non stavo cercando di ferirlo. Stavo cercando di avvicinarmi. Come quando cammini in punta di piedi su un pavimento che scricchiola, ma vuoi comunque arrivare dall’altra parte.
Volevo solo che sapesse che certe parole non sono lamenti, sono chiavi. Chiavi che aprono porte. O almeno ci provano.
Ma lui chiudeva tutto. Serrande emotive abbassate. Cortocircuiti lessicali. “Abbiamo chiarito, per me non serve dire altro.” E poi, silenzio.
Nel frattempo, il mio ex collega, lo stesso che una volta ha dimenticato il compleanno della moglie ma ha saputo chiederle scusa senza inventarsi traumi infantili, mi dice: “Le discussioni servono. Sono lo spazio dove si cresce.”
E ho pensato: forse non è il confronto a spaventare certi uomini. È lo specchio.
Perché discutere, davvero, non significa vincere. Significa mettersi nudi, e non nel modo carino delle domeniche lente, ma nudi emotivamente. Significa dire: “Questa parte di me ti dà fastidio, lo so. Ma è comunque me. Ci stai?”
C’è chi ci sta. C’è chi scappa. E c’è chi si infila sotto il letto emotivo e finge di dormire finché la tempesta non passa.
La psicologia, ovviamente, ci mette il timbro. Gli evitanti non reggono il confronto perché lo vivono come minaccia. I sicuri, invece, ci si buttano dentro. Sanno che non c’è amore senza attrito. Che non si costruisce niente su un tappeto di “tutto bene”.
Anche Eraclito, che probabilmente avrebbe fatto il ghostwriter perfetto per certe newsletter motivazionali, l’aveva capito:
“Il conflitto è padre di tutte le cose.”
Ma noi continuiamo a cercare relazioni inodori, incolori, emozionalmente senza grassi. Come se potessimo amare senza sudare, legarci senza inciampare, restare senza parlarci davvero.
Forse il mio compagno non fuggiva da me. Fuggiva da se stesso. Fuggiva dall’idea che amare significasse anche stare dentro un campo di battaglia senza armi, con solo due cuori e qualche parola stortissima tra i denti. Forse il confronto lo appesantiva perché lo costringeva a sentire. E sentirsi, per chi non ha fatto pace con sé, pesa più di qualsiasi litigio.
Il mio collega, invece, ha detto una cosa semplice. Quasi banale, se non fosse così profondamente vera: “Ci stanno, le discussioni.”
Come a dire: “Ci sto, quando vuoi parlare.”
E allora mi sono chiesta, io che ogni tanto scrivo per capire più che per spiegare, e se il problema non fosse tanto quanto discutiamo… …ma quanto siamo disposti a restare, davvero, mentre lo facciamo?
E se, per certi uomini, non fosse la discussione in sé a pesare, ma il fatto che qualcuno li guardi senza filtri, senza scappatoie, senza via di fuga?
Forse non era il tono della mia voce a creare distanza. Forse era il contenuto del mio cuore, troppo vero, troppo nudo, che faceva paura.
Morale? Ci sono uomini che fuggono dalle discussioni perché temono il disordine che le parole possono portare. Ma il vero punto non è quanto si discute, bensì con chi scegli di restare, e chi ha il coraggio di ascoltare anche quando fa male. Come sottolinea la psicologa Sue Johnson, esperta di terapia di coppia:
“Il conflitto, se gestito con sicurezza, è la linfa vitale di ogni relazione profonda.” Perché discutere non significa distruggere, ma costruire, insieme.