Relazioni da vaso senza fondo: quando l’insaziabile diventa il tuo hobby preferito

Amare qualcuno che sembra un buco nero emotivo è un’esperienza unica. Ti risucchia tempo, energie, pazienza… come se fossi intrappolata in un’eterna partita a Tetris dove i pezzi non smettono mai di cadere, ma non riesci mai a completare una riga. Ti ritrovi a correre dietro a un’insaziabile che non si accontenta mai, come se la vita fosse una gara a chi accumula più stimoli e relazioni. Ma quando arriva il momento di godersi il paesaggio? Niente. Perché in fondo, l’unica cosa che davvero trattiene è quel malessere appiccicoso che ti lascia senza respiro. E tu? Tu sei lì, con la voglia di salvarlo, di capirlo, di essere quella che fa la differenza. Peccato che a volte, il vero buco nero sia proprio quel vuoto che nessuna cura riesce a riempire. Benvenuti in questa storia di amore, ansia e partite perse.

Mi manca.

Anche adesso.

Mi manca la sua quotidianità, le sue abitudini, i messaggi sparsi durante il giorno, i gesti che conoscevo a memoria.
Mi manca persino il modo in cui mi faceva arrabbiare. Ma non mi manca quella sensazione di costante compressione, di dover sempre trovare spazio dove lo spazio non c’era più.
Perché lui era così. Come un gas. Invisibile ma capace di entrare ovunque.
Non mi chiedeva di rinunciare a me. Ma in qualche modo lo facevo.

All’inizio c’erano delle regole. Una, in particolare: “Non farmi mancare le cose”. Voleva tempo, presenza, attività, esperienze. Non voleva limiti.
Sembrava una richiesta d’amore, invece era una clausola.
E io l’ho accettata.

Così ho cominciato a fare spazio. A rinunciare, a organizzare la mia vita intorno alla sua. Ho ridotto il tempo per mio figlio, per il mio lavoro, per me stessa.
Non gliel’ho fatto pesare. Mai.
Non lo sapeva, ma ogni volta che diceva “dai, usciamo” e io ero stanca, uscivo lo stesso.
Ogni volta che avevo un attimo libero, finiva per diventare tempo per lui.
Non perché lo pretendesse apertamente, ma perché lo dava per scontato.
Non organizzavo abbastanza, diceva. Non ero abbastanza “propositiva”, “entusiasta”, “sociale”.
Ma in realtà stavo già facendo i salti mortali solo per stargli dietro.
E anche se non organizzavo weekend in posti esotici o tavolate da venti persone, gli stavo consegnando qualcosa di più raro: la mia presenza.
Ma lui, come spesso accade a chi ha sempre fame, scambiava l’oro per cartone solo perché non luccicava abbastanza.

Con lui non bastava mai.
Era come versare acqua in un vaso senza fondo. Sempre alla ricerca di stimoli, compagnie, nuove relazioni, nuovi ambienti.
I momenti solo nostri sembravano annoiarlo.
Un pranzo semplice, una serata tranquilla, una giornata uguale alle altre… tutto gli sembrava troppo poco.
E quando qualcosa non era all’altezza delle sue aspettative, mi guardava come se fosse colpa mia.
Come se la responsabilità della sua insoddisfazione ricadesse su di me.

E lì iniziava il senso di colpa.
Come se non fossi abbastanza. Non interessante, non brillante, non stimolante.
Ma forse non era me che giudicava.
Forse non gli piaceva la sua vita, e cercava sempre qualcuno o qualcosa da incolpare.
Io sono diventata quel qualcosa.

E poi c’era la gara con il mondo. Invidiava gli altri, quelle vite apparentemente piene di colori e successi, eppure non assaporava nulla. Non ricordava i momenti belli, solo i fastidi. Diceva che gli dispiaceva, ma come si può ricordare un paesaggio se non ti fermi mai a guardarlo? È come scattare foto con un cellulare scarico: immagini sfocate e nessuna traccia indelebile. Solo un fastidio persistente, un malessere che si appiccica addosso come un vestito che non ti sta più bene.

La verità è che non era sempre una relazione felice. A tratti, sì. C’erano dei momenti. Ma la felicità non è un attimo da rincorrere, è uno stato che dovrebbe tornare. Con lui, si dissolveva. Perché quando finiva l’euforia iniziale, lui si spegneva. Non entrava mai nella fase successiva, quella dove si costruisce. Preferiva restare fermo nella nostalgia della partenza, senza mai arrivare davvero. Ha avuto tante storie, tutte simili: non andava mai oltre la chimica, quel momento magico e fugace dove tutto stimola. Poi, quando la magia svaniva, lui si stancava e mollava.

E io? Io non so se mi manca per amore, o per la voglia di salvarlo. Perché dentro quel caos avevo visto del bello, qualcosa che forse lui stesso aveva fagocitato o ingoiato troppo in fretta. Ho fatto da specchio, certo, ma uno specchio che rifletteva soprattutto il suo brutto, il suo malessere. E alla fine, chi non vuole vedersi davvero, non si vedrà nemmeno attraverso lo specchio più limpido.

Diceva che voleva tranquillità. Ma poi si irritava se le cose non erano abbastanza vive, abbastanza nuove, abbastanza da raccontare. Alzava la voce, pretendeva. Non cercava una connessione: cercava di non annoiarsi. Ma l’amore non è uno spettacolo continuo.
È anche ripetizione, consuetudine, silenzi.
E lui quei silenzi non li reggeva.

Non ricorda un viaggio per intero.
Non conserva una relazione fino in fondo.
Ha la memoria selettiva di chi scarta tutto, tranne i fastidi.
È capace di dimenticare le risate, ma non il tono sbagliato con cui gli hai risposto una volta.
È capace di cancellare la cura, ma tenere traccia di ogni piccolo inciampo.

Ora ho questo spazio tutto mio.
Non sempre lo riempio bene.
A volte ci inciampo.
A volte vorrei stringermi ancora a lui, solo per sentire qualcosa di familiare.
Ma poi ricordo com’era stare lì: sempre in corsa, sempre sotto esame, sempre in difetto.

E allora mi fermo.
Mi ascolto.
E capisco che forse, per la prima volta, sto imparando a respirare.


Alla fine non cercava una relazione, cercava un’agenzia viaggi, una cheerleader, e un sedativo contro la noia. Ma tutto incluso, amore mio, lo fanno solo i resort.

Il monaco zen che odiava le discussioni (e le capre in salotto)

Odiava le discussioni, diceva. Io odiavo il silenzio che ne seguiva. Ma la verità? Nessuno dei due era innocente. Perché a volte il vero problema non è chi parla o chi tace, ma quello che scegliamo di non vedere. Pronti a scoprire cosa succede quando l’amore diventa un monaco zen che cerca di scappare dalle sue stesse capre?

Ci sono frasi che ti restano appiccicate addosso come una colla industriale: invisibili, ma ci metti anni a liberartene.
Una di queste, nel mio caso, è:
Io non voglio discussioni. Mi appesantiscono.”

Sembrava quasi una dichiarazione di intenti da uomo saggio.
Uno di quelli che meditano prima di rispondere, che parlano sottovoce per non disturbare l’universo.

Ma no.
Lui non evitava le discussioni per amore della pace. Le evitava perché lo destabilizzavano. Perché lo facevano arrabbiare. E tanto.
Perché in mezzo a un confronto perdeva controllo, lucidità, e pure una discreta quantità di rispetto.

Il problema non era la discussione. Era quello che saltava fuori da lui durante la discussione.

E io, con la mia emotività, le mie domande, la mia voglia di capire, ero semplicemente troppo.
Troppo stimolo, troppo specchio, troppo vicina al punto che cercava di nascondere.
E quando tocchi certi nervi, non ottieni dialogo. Ottieni detonazione.

Le discussioni, comunque, arrivavano. Nonostante i suoi “non voglio parlarne”.
A volte le innescava lui. A volte io. Altre volte, boh, era solo martedì.
Perché quando qualcosa sobbolle dentro, basta uno sguardo storto per far saltare il coperchio.
E no, non sempre si può decidere chi ha premuto il bottone.

Lui non era il tipo da abbracci senza motivo o regali inaspettati.
Era più da presenza gestionale: c’era, ma con la stessa intensità emotiva di un’email dell’INPS.

Io, invece, volevo qualcosa che assomigliasse almeno vagamente a un legame.
Un gesto che dicesse: sono qui perché lo scelgo”, non perché lo devo.

Ma più cercavo, più si ritraeva.
E non perché non provasse nulla. Ma perché provava troppo.
E quel troppo lo spaventava. O peggio: lo faceva reagire con rabbia.

Poi c’era quella frase. Quella che ancora oggi mi fa stringere la mandibola:
Ci sono lati di me che non mi piacciono. Cerco una persona che non me li faccia uscire.

Perfetto.
Quindi, idealmente, una fidanzata silenziosa, anestetizzata, inoffensiva.
Un antistimolo emotivo con la funzione di non far esplodere nulla.
Peccato che io non fossi un tranquillante da banco.
E che la vita, quando è vera, non possa proteggerti da te stesso.

Perché quelle parti che non sopporti, se non le affronti, ti useranno.
Si infilano in ogni crepa, in ogni parola detta male, in ogni tensione non gestita.
E a quel punto, non è la relazione a essere tossica. È la tua reazione che lo diventa.

Io, almeno, ho sempre cercato di fare il contrario.
Di guardarmi. Di capire perché mi sento in un certo modo, perché reagisco così, cosa mi scatta dentro.
Ho scavato. Ho sbagliato. Ho sistemato. Sto ancora sistemando.
Ma almeno, se qualcosa mi esplode dentro, non dò la colpa all’innesco. Mi prendo la responsabilità della dinamite.

Lui no.
Lui ha visto il riflesso, si è spaventato, e ha provato a distruggerlo.
Non perché io fossi un mostro.
Ma perché io vedevo.

E allora mi chiedo:
Capirà mai che la rabbia non è il problema, ma il modo in cui la ignori?
Che l’emotività non è un difetto, ma un indicatore?
Che se scappi da tutto ciò che ti smuove, finisci per desiderare relazioni anestetiche, sterili, facili da sopportare ma impossibili da vivere?

L’ultima volta mi ha detto:
Sai quanti come me troverai?
E io ho sorriso.
No, non ne troverò.
Perché ognuno di noi è irripetibile, nel bene e nel male.
E tu, che tanto temi le tue ombre, non hai ancora imparato a vedere nemmeno la tua luce.
E ti auguro, davvero, un giorno di riuscirci. Magari in silenzio, magari da solo.
Ma senza cercare altre capre da incolpare solo perché non riesci a fare il monaco zen.

Io, invece, continuerò a sporcare le mani.
A stare. A scavare. A farmi domande anche quando è scomodo.
Perché se devo scegliere tra una persona che mi fa sentire sempre tranquilla e una che mi costringe a guardarmi, scelgo la seconda.
Anche se mi mette in crisi.
Anche se mi ribalta.

Perché l’amore, quello vero, non ti protegge dalle tue parti peggiori.
Ti aiuta a farci pace.

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Mi mandava cuoricini. Poi ha fatto i bagagli

Se pensate che l’amore sia un film romantico, fermatevi qui. Qui si parla di tutto quel marasma di emozioni che ti fa chiedere: “Ma sono io o è lui che sta facendo un remake di Dottor Jekyll e Mister Hyde?” Benvenuti nel backstage di una relazione che, diciamocelo, è più caos che comfort.

Due ore prima mi mandava cuoricini. Due ore dopo faceva i bagagli.

Con rabbia, sì. Dopo una crisi vera. Di quelle in cui ti dici cose che fanno male e che ti rimbombano nelle orecchie anche mentre chiudi la porta. Nessun addio teatrale, nessuna telenovela. Solo quel gesto definitivo. Lui, che se ne va. Fine.

Io, come sempre, sono quella che legge. Che da sempre prova a capire come funzioniamo, come ci incasiniamo, come ci smarriamo. La mente mi è sempre sembrata un puzzle che voglio ricomporre. Leggo tanto. Per mestiere, per passione, per tentare di tenere insieme i pezzi.

Qualche giorno prima che lui se ne andasse, stavo leggendo “A tua insaputa”, un libro che esplora quanto le nostre scelte siano guidate dall’inconscio. C’era un passaggio che mi ha colpita. Parla della rabbia che proviamo mentre guidiamo: la prima volta che qualcuno ci taglia la strada, ci irritiamo. La seconda volta un po’ di più. Alla terza, cominciamo a scalpitare. Alla quarta si stringono i pugni. Alla quinta… si esplode.

Eppure, ognuno di loro ti ha fatto un torto solo una volta.

William James lo chiama “somma di stimoli”. Non reagiamo all’evento singolo, ma all’accumulo. È la ripetizione che ci logora. La memoria delle emozioni ci trasforma. Si accumula come polvere nei filtri. E alla fine, il sistema cede.

E allora forse io non ero la causa. Ero solo la quinta macchina.

Quella che ha beccato lo scoppio, lo sfogo, la saturazione. Magari per qualcosa che ho detto che gli risuonava in modo spropositato. Relazioni precedenti, rancori, fallimenti, aspettative bruciate. Io sono arrivata quando l’isola ecologica era già sommersa, e nessuno nel frattempo era passato a ripulirla.

E forse, questo, l’universo ha cercato di insegnarmelo. A modo suo. Brutale, ma efficace.

Perché sì, con me c’era insofferenza. Lo sentivo. Quella frase ricorrente: “questo non lo voglio, questo non fa per me”. Una lista infinita di no che sembrava più vecchia della nostra storia. Noi discutevamo, anche spesso. Ma ogni volta sembrava che le nostre liti si portassero dietro fantasmi che non erano miei. Non era impazienza verso di me. Era impazienza sedimentata, trasformata in cronica allergia al conflitto.

Diceva di avere pazienza, ma la pazienza non è solo non sbattere la porta. La pazienza non è restare mentre ti logori dentro. Non è dire “va bene” mentre in silenzio annoti tutto su una lavagna emotiva, finché un giorno ti svegli e decidi di cancellare tutto. Anche me.

Da fuori poteva sembrare uno sbalzo inspiegabile. Bipolare. Dottor Jekyll e Mister Hyde. Due ore prima amore. Due ore dopo dismissione. Ma quando conosci le dinamiche del trauma accumulato, della mente affaticata che non ha più margine di tolleranza, capisci che non c’è niente di misterioso.

Certo, non sono una santa. Anche io ho le mie puntate da Desperate Housewives, i miei drammi per un cassetto lasciato aperto, le mie arringhe da salotto mentre preparo la cena.

Ma ci provo. A non far pagare a chi ho accanto ciò che mi hanno lasciato altri.

Lui, forse, non lo sapeva. Forse non gliel’ha mai spiegato nessuno. Che se non svuoti l’isola ogni tanto, prima o poi esplodi. E a farne le spese sarà chi ti ama. Anche se ti manda solo un cuore. Anche se ti chiede solo di restare.

Io, nel frattempo, raccolgo. Le teorie, i segnali, i cocci. Li studio, li osservo, ci rifletto. Non perché io sia immune, ma perché almeno voglio sapere dove finisco io e dove iniziano le ombre che mi porto dietro.

Non so ancora cosa farne di tutto questo. Ma so che ogni tanto, a forza di studiare il traffico emotivo, qualcosa impari. Tipo che se qualcuno ti taglia la strada per l’ennesima volta, forse non serve esplodere. A volte puoi anche accostare, tirare giù il finestrino, e farti una risata.

O almeno provarci. Che l’universo, nel frattempo, continua a giocare a scacchi. Ma io, a volte, preferisco giocare a dama. Le regole sono più semplici. E si salta lo stesso.


Alla fine, la mia macchina metaforica si è beccata tutta quella rabbia, tutta quella somma di stimoli che non le spettava. Lei ha sobbalzato, ha strillato, ha pagato il prezzo di tutte quelle indisciplinate che gli avevano tagliato la strada prima di me.

Io, di verità in tasca, ne ho poche. Nessuna formula magica, nessuna spiegazione definitiva. Solo una certezza: per ora, per non sbagliare, mi sono comprata una macchina nuova, vera.

Perché se devo ripartire, voglio farlo con stile.

Riflessioni di una notte in cui ho scelto di restare con me (perché a volte il brindisi va rimandato)

A volte basta una notte qualunque, un po’ di silenzio, e nessuna distrazione all’orizzonte.
Niente messaggi da rileggere, niente playlist malinconiche in sottofondo.
Solo me, i miei pensieri… e quel vecchio vizio di volerci capire qualcosa.
Non ho trovato risposte.
Ma ho trovato me.
E il modo più onesto che conosco per starmi accanto: scrivere.

Ci sono dolori che non lasciano neppure la forza di parlare.
Quelli che ti attraversano come una tempesta, e dopo non sei più la stessa.
Li conosco.
Ci sono passata, senza clamore, senza presunzione.

Ma oggi voglio soffermarmi su un altro tipo di dolore.
Quello che arriva quando una storia d’amore finisce.
E con lei se ne va anche un pezzo della nostra identità, dei nostri riti quotidiani, della nostra idea di futuro.

È di questo che scrivo qui.
È il tema del mio blog.
Il mio piccolo osservatorio emotivo sul cuore umano.
E, come sempre, parto da me.

Ho scritto molto, e spesso senza punteggiatura emotiva, su ciò che mi è frullato nella testa e nel cuore dopo la rottura.
Rottura: che parola delicata per dire “ti lascio, arrangiati”.
Il mio compagno ha fatto i bagagli.
E no, non per portarmi a Parigi.
Né a Bali.
Ha fatto i bagagli per andarsene. Punto.

Mi sono trovata da sola, in salotto, con la tazza della tisana ancora calda e l’anima completamente ghiacciata.
E allora ho fatto quello che molte fanno:
Ho pianto.
Tanto.
Poi ho immaginato il suo ritorno trionfale, tipo una scena hollywoodiana da manuale, con la pioggia, un mazzo di fiori e un discorso da Oscar.
E ho aspettato.
E lui? Niente. Neanche uno “scusa, ho dimenticato il caricabatterie”.

Mi aveva detto:
“Adesso starai male, poi mi odierai, poi ti passerà.”
Il Bignami del dolore romantico.
Manuale d’istruzioni per relazioni usa e getta.
Un vero guru delle emozioni, versione IKEA: tutto schematico, tutto smontabile.

Il cervello umano, forse, lo conosceva anche bene.
Ma il cuore? Quello sembrava averlo lasciato in una vecchia relazione del 2009.

Aveva una collezione di storie sentimentali come certe fashion blogger hanno quella di borse: tutte belle, nessuna davvero necessaria.
E una teoria infallibile:
Stiamo insieme, poi io ti lascio, tu soffri, mi odi, mi dimentichi.
Una catena di montaggio del distacco.
Peccato che io non ho trovato l’ingresso a questa catena.

A me non è mai successo.
Non ho una sfilza di ex da elencare come trofei.
E forse, come diceva lui con aria da saggio zen:
“Devi fare esperienza.”
Peccato che io ho quasi mezza età.
Come lui.
Ma lui evidentemente si sente ancora in fase tirocinio affettivo.

Se crescere significa collezionare una decina di relazioni fallimentari, mi spiace: non mi interessa accumulare bollini per vincere il peluche dell’illuminazione.

Eppure, oggi posso dirlo:
non lo odio.
Non ci riesco.
Non è una parte che mi viene naturale recitare.
Quello che mi viene naturale, invece, è provare dolore.
Dolore vero, nudo, senza filtri.
Dolore misto a incredulità.
Come se mi fossi svegliata su un pianeta sbagliato.
Uno che non è la Terra.
Uno che non ha nemmeno l’opzione “torna a casa”.

E lì, proprio lì, ho capito che davanti al dolore ci sono solo due scelte:

Cadere nella disperazione e lasciarlo vincere.

O Usarlo.

Sì, usarlo.
Perché quando ti si spezzano le viscere e ti ritrovi col cuore in mano, e non è una metafora, ti viene spontaneo chiederti:
Che diavolo me ne faccio adesso di tutta questa sofferenza?
E l’unica risposta sensata che mi è venuta è stata:
la uso.

Uso il dolore per scrivere.
Per danzare dentro i miei pensieri.
Per fare l’unica cosa che può riportarmi a galla: esplorarmi.

E così ho iniziato il mio personale viaggio dantesco.
Senza Virgilio, senza guida turistica.
Ma l’Inferno l’ho trovato.
Altroché.
Ho iniziato da lì. Dal buio. Dal fondo.

Il cammino sarà lungo, e spesso mi sembra di avere le scarpe sbagliate per affrontarlo,
ma l’importante è iniziare a camminare.

Ho preso tutte le mie parti interiori, quelle in lacrime, quelle arrabbiate, quelle che avevano solo voglia di sparire, e le ho messe attorno a un tavolo.
Sedetevi, ho detto. Parlate.
E ho ascoltato. Una per una.
Senza zittire nessuno.
Ho fatto da psicologa, da madre, da giudice imparziale.
Non sapevo neanche di avere tutte quelle voci dentro di me.
Siamo un esercito. Piccolo, ma rumoroso.

E lì ho capito che siamo tutti dotati di risorse straordinarie.
Siamo come macchine con mille optional.
Solo che a volte nessuno ci insegna a usarli.
Li abbiamo chiusi in qualche stanza interiore con l’etichetta “da sistemare”.
Eppure, sono lì.
Pronti.
Intatti.

La sofferenza, a ben guardarla, arriva proprio per questo:
per svegliarci.
Non per distruggerci.
Ma per bussare forte.
A volte con la gentilezza di un pugno.

Ma non sveglia tutti.
Dipende da come scegliamo di rispondere.
Possiamo usarla per inaridire il cuore, chiuderlo, irrigidirlo.
Oppure possiamo lasciarla fiorire, trasformarla in qualcosa di nuovo.
Lui, evidentemente, ha scelto la prima strada.

E sì, se avessi potuto scegliere il Paese dei Balocchi, lo avrei fatto.
Senza esitazione.
Avrei firmato.
Avrei chiesto pure il Wi-Fi.

Ma siamo qui.
Sul pianeta Terra.
Nel caos, nel dolore, nel disordine magnifico delle nostre emozioni.

E allora, cosa possiamo fare?
Scegliere.

Io non ho grandi verità universali da offrire.
Non conosco la mappa del destino, né i segreti del subconscio.
Ma conosco me stessa, un pochino.
E so che ogni volta che ho trasformato il dolore in qualcosa, un gesto, un testo, una risata, ho fatto un passo fuori dall’Inferno.

Create.
Cantate.
Ballate.

Prendete quel dolore, ascoltatelo, ascoltatevi.
E fatene benzina.
Non per dimenticare.
Ma per ricordare chi siete.

Non so se questo vi salverà dal soffrire.
Ma so che ci sono delle strade.
Strade che portano avanti, altrove, o semplicemente più vicino a voi stesse.

E a volte, è tutto ciò che serve.

Con amore,
Elena


Morale della favola?
Il dolore non si evita, il vino finisce, e le valigie a volte se le portano davvero via.
Ma restare con sé stesse, anche solo per una notte, può essere l’inizio di una storia d’amore che non si lascia più.


The moral of the story?
You can’t avoid the pain, the wine runs out, and sometimes they really do take the bags with them.
But staying with yourself, even if just for one night, can be the beginning of a love story that never lets go.

Da confidente a sconosciuta in 3 colazioni

Mi fidavo di lui come ci si fida del caffè al mattino: caldo, costante, necessario.
Mi raccontava tutto. Le sue paure, i sogni storti, i pensieri che si sussurrano solo a chi non ti tradirà.
E invece, nel giro di tre colazioni — una con un sorriso, una con silenzio, una da sola — mi sono svegliata straniera nella vita che avevamo costruito.
E lui?
Lui aveva già fatto check-out, lasciandomi un “buongiorno” fantasma e un vago senso di umiliazione servito tiepido”

C’erano i buongiorno del mattino.
Il caffè insieme, anche a letto. Il cuoricino che arrivava su WhatsApp a metà mattinata, quando ero in ufficio, tra una mail e l’altra.
Le telefonate per organizzare il pranzo, la spesa, la cena.
La domenica al mare, gli amici, le coccole sul divano, le notti che non finivano con un “buonanotte”, ma con un silenzio che diceva “resta qui”.
C’erano i pomeriggi a provare vestiti nei camerini, consigliandoci come se stessimo scegliendo insieme il prossimo pezzo della nostra vita.

E poi c’erano le passeggiate mano nella mano, i pensieri detti ad alta voce, le confessioni che non si fanno a nessuno, tranne a chi si ama e si crede resterà.

Le vacanze improvvisate, la moto che rombava libera sulla strada, la spensieratezza che sembrava eterna.
Una vita che ormai era tua… forse.

E poi c’erano anche i momenti no.
Le incomprensioni che graffiano un po’ la pelle, quelle discussioni che sembrano macchie scure su una tela luminosa.
Quella nota forse negativa, necessaria, che dà colore e profondità a ogni storia vera.
Non è mai tutto bianco o nero.
È un mosaico che si costruisce pezzo dopo pezzo, un modo diverso per imparare a integrarci, a conoscerci, a capire come stare insieme senza perdersi.

Lui si confidava con me.
Mi raccontava tutto.
Si apriva.
Avevo l’illusione di essere diventata la sua casa.
Non solo la donna, ma anche la custode dei suoi segreti.
E allora cominci a crederci davvero: che sia per sempre.
Che quel vestito quotidiano fatto di gesti, abitudini e complicità ti calzerà addosso per tutta la vita.
Come un abito su misura.

E poi, un giorno, te lo strappano via.
Non te lo sfili da sola, no.
Te lo levano di dosso con una calma spietata.
Da chi, invece di dirti che stai bene, ti lascia nuda.
Così, senza una spiegazione che sia degna del nome.

Non puoi scegliere.
Quando qualcuno decide per te, tu non hai margine.
Puoi solo restare lì, nella realtà nuova, quella che non hai chiesto, e raccogliere ciò che resta.
Brandelli.
Di te, della tua quotidianità, della versione di voi che solo tu sembravi ancora vedere.

Non raccontiamoci la favola della ferita antica che si riattiva.
Non è la “paura dell’abbandono” come dicono i manuali.
È l’abbandono. Punto.
È reale. È tuo. Ti toglie il fiato.
È svegliarsi e rendersi conto che chi c’era, non c’è più.
E che la tua esistenza, fino a ieri condivisa, è stata spazzata via come una cartolina dimenticata nella buca della posta.

Fa male.
Disilludersi fa male.
Dare un senso al nulla, fa male.
Guardare la persona che fino a un istante prima ti faceva vibrare, e scoprire che ora ti fa tremare, non per emozione, ma per gelo, fa malissimo.

E sì, l’ho supplicato.
L’ho fatto.
Con la disperazione di chi ha ancora qualcosa da perdere.
Come se la mia voce potesse sciogliere il ghiaccio, come se il mio dolore potesse riattivare il suo cuore.
Ma era già chiuso.
Serrato.
E dentro non c’era più nulla per me.

Non ci stai a farti colpire così.
Non puoi crederci.
Non puoi accettare che chi ti accarezzava fino al giorno prima ora ti ignora come se fossi polvere.

E allora mi chiedo:
avrò mai delle risposte?

No.
Perché le risposte richiedono verità.
E chi scappa senza dire niente, spesso, non le ha.
O non ha il coraggio di darle.

So solo che non voglio assomigliargli.
Non perché mi senta migliore.
Ma perché non voglio essere il tipo di persona che costruisce una casa in due…
e poi esce, chiude la porta a chiave, e lascia l’altro dentro a chiedersi che cavolo è successo.


Quando una relazione finisce, ma sei l’unica a cui non è stato comunicato, non perdi solo una persona. Perdi anche la realtà che avevi costruito giorno dopo giorno, come un vestito cucito su misura.
E ritrovarti nuda, in una vita che non riconosci più, è una delle forme più crudeli di abbandono


When a relationship ends, but you’re the only one left out of the loop, you don’t just lose a person.
You lose the reality you built day by day, like a tailor-made dress.
And finding yourself naked, in a life you no longer recognize, is one of the cruelest forms of abandonment

“Bridge, io e l’amore lasciato sul ponte”

Mi chiedevo: e se il problema non fosse l’amore, ma il fatto che la gente non sa proprio amare? Né un gatto, né un essere umano.
Adottano, salvano, ti chiamano “pasticcino”… finché non inizi a graffiare il divano.
Poi ti lasciano lì, sul ponte della loro immaturità, come un soprammobile che non si intona più al salotto.

A marzo, mentre percorrevo con quello che allora chiamavo “il mio compagno” un lungo ponte sopra un lago, l’ho visto. Un gattino nero, rannicchiato sotto il guardrail, minuscolo e spaesato come se fosse caduto lì per sbaglio — o peggio, per volontà di qualcuno.

«C’è un gatto» ho detto, con la voce strozzata da quel tipo di istinto che certe donne chiamano amore, ma che in realtà è solo un radar finemente sintonizzato sul dolore altrui.
Lui non ha esitato. Ha fatto inversione, siamo tornati indietro, lo abbiamo recuperato.
Il gattino tremava come se avesse appena scoperto che al mondo esistono gli esseri umani.

L’abbiamo portato con noi. Lui, il mio compagno, era un po’ titubante, ma in fondo anche lui voleva salvarlo.
E io lì, nel mio delirio romantico, ho pensato: ecco, vedi? Voglio un uomo così. Sensibile. Con il cuore che si muove.
Ero felice.

Il gattino aveva circa sei mesi, le unghie sistemate, il pelo lucido, nessuna pulce. Qualcuno lo aveva amato. Fino al momento esatto in cui ha deciso che non lo voleva più.
L’abbiamo chiamato Bridge. Perché c’è del simbolismo nei salvataggi: da una morte certa a una seconda possibilità. Dalle mani di qualcuno che ti ha scartato, a quelle di qualcuno che decide di restare. O almeno così credevo.

Io avevo già due gatti. Ma per me Bridge non era “uno di troppo”, era il numero perfetto.
Lui, l’uomo, non il gatto, diceva che era meglio trovare una soluzione, un’altra casa.
Ma poi… passavano i giorni. E se ne innamorava anche lui. O almeno così sembrava.

Quando lui mi ha lasciata, mi sono sentita come Bridge.
Qualcuno che ti aveva promesso amore… e poi ti lascia lì.
Così. Sul ciglio di una strada. Su un ponte. Con il lago sotto.

Il dettaglio più assurdo?
La sera prima, avevamo fatto l’amore, come sempre, come ogni giorno.
Con la solita dolcezza, la stessa familiarità, le stesse mani che sanno dove andare quando ormai si conosce il corpo dell’altro come una seconda pelle.
Mi aveva guardata come sempre. Mi aveva detto le solite cose che si dicono quando si ama, o si finge bene.
E poi, il giorno dopo, mi ha lasciata.
Così. Come si chiude una finestra prima di un temporale.

Ho immaginato spesso chi aveva adottato Bridge prima di noi. Avrà comprato la ciotolina carina, la cuccia fluffosa, il collare con il nome. Tutto quel meraviglioso arsenale da pet-parent che scatta nei primi dieci minuti di entusiasmo compulsivo.

Ma l’entusiasmo, si sa, ha la scadenza di uno yogurt dimenticato in frigo.

Bridge era diventato reale. Graffiava, saltava sui mobili, rubava la pancetta. E no. Questo non era previsto nel copione.
Non era più lui. Era diventato sé stesso.
Ed è lì che è crollato l’incantesimo.

Perché l’amore va bene… finché resta nella cornice. Quando esce, quando sporca, quando morde, diventa un problema da risolvere.
Allora si molla tutto. E si molla l’altro.

Così si finisce per odiare ciò che prima si adorava.
Non perché sia cambiato. Ma perché ha osato esistere oltre la fantasia.
E ti rendi conto che non era amore. Era solo l’ennesimo tentativo disperato di decorare la tua solitudine.

Gli ho detto che mi sentivo come Bridge.
Lui ha protestato: “Il paragone non regge, io non sono come chi ha abbandonato Bridge.”

Ah no?
E allora tutti quei caschi nel tuo garage, quelli acquistati subito per me, e quelli rimasti lì delle “altre”?
La mia bici? Quella acquistata per me, per pedalare insieme sul lungomare?

Caschi, bici, oggetti: il merchandising dell’amore usa e getta.
Tutte quelle cose non erano per noi. Erano per lui. Rimaste lì, nel suo garage!
Un collage emozionale fatto di persone che dovevano solo entrare nella sua scenografia, senza mai spostare un mobile.

Come Bridge, io avevo una mia vitalità. Un mio modo di fare. Coccolosa, sì. Ma anche con artigli.
E i nomignoli adorabili — “pasticcino, patata, bruschetta” — sono diventati stretti, come quei vestiti che smettono di piacerti appena la realtà prende forma.

Quando non ero più perfetta, sono diventata scomoda.
Quando ho iniziato a miagolare fuori copione, sono diventata troppo.
E allora, via. Sul ponte. Dove si lasciano le cose che non stanno più bene nel soggiorno dell’anima.

Ma vedi, caro ex mio, io lo so bene: quando compri una cuccia pensando che basti quello per creare amore, non è amore. È arredamento.

E oggi, mentre guardo Bridge che mi guarda, sento che siamo una gran bella squadra.
Niente più cuccette infiocchettate. Niente illusioni di amori eterni impacchettati come regali. Niente illusioni di eternità. Solo una semplice, sacrosanta verità: non mi abbandonerò più.

Perché l’abbandono peggiore non è quando se ne vanno gli altri.
È quando cominci tu a dubitare del tuo valore solo perché qualcun altro ha lasciato il guinzaglio per strada.

Forse lui non poteva farcela. O forse aveva il cuore impastato di ex storie che gli hanno asciugato il coraggio.
O magari ha solo smesso di credere nell’amore e ha iniziato a collezionarne versioni convenienti.
Non importa.

Io non so se amerò ancora come prima. Ma so che la prossima volta non salirò sul ponte con nessuno che non sappia davvero dove sta andando.

E sì, può anche darsi che prima di abbandonare Bridge qualcuno l’abbia accarezzato e gli abbia detto:
“Perdonami, non ce la faccio.”
Ma su un ponte? Con il lago sotto?
No, caro. Non ti posso perdonare.
Neanche per un peluche. Figurati per una vita.


Forse l’amore non è un peluche da coccolare finché non graffia. Forse è un essere vivente, umano o felino, che chiede solo una cosa: non essere lasciato sul ponte al primo graffio.
Perché alla fine, non è l’amore che fa paura. È la gente che si presenta come un rifugio… e poi si rivela una porta che si chiude quando hai più bisogno di entrare


“Maybe love isn’t a plush toy to cuddle until it scratches. Maybe it’s a living being, human or feline, asking for just one thing: not to be left on the bridge at the first scratch. Because in the end, it’s not love we’re afraid of. It’s people who show up like a shelter… and turn out to be a door that slams shut just when you need to walk in most”

Campanellini, codici e fregature emotive: come decifrare l’Enigmista dell’amore

Perché, se avessi voluto risolvere enigmi, mi sarei iscritta a Chi ha incastrato Roger Rabbit.

C’è un momento in cui capisci che qualcosa non va.

Un silenzio che pesa troppo o una parola che pesa troppo poco.

Una carezza che si spegne a metà. Un’energia che cambia.

E poi, arrivano loro: i campanellini.

No, non quelli di Natale.

Quelli dell’Enigmista.

Mi ha detto, con la solennità di chi si sente profondo ma recita da copione, che da tempo faceva suonare campanellini.

Come se la nostra storia fosse una puntata di Saw, versione romantica ma non meno sadica.

Come se, invece di costruire qualcosa insieme, il mio ruolo fosse quello della concorrente ignara che deve decifrare segnali nascosti, pena la fine della relazione.

E io che pensavo di essere in una storia d’amore.

Invece ero finita in una specie di gioco dell’oca sentimentale, dove se tiri il numero sbagliato torni indietro di tre caselle, senza passare dal via, senza possibilità di appello.

Ma non era uno che taceva.

Parlava.

Eccome se parlava.

Parlava per dire tutto quello che non gli piaceva.

Tutto quello che non voleva.

Tutto quello che non dovevo più fare.

Era come avere accanto un correttore automatico vivente: sempre acceso, sempre pronto a sottolineare un errore in rosso. Un gesto, una parola, un tono sbagliato… e tac: campanellino.

Una critica detta con quel tono gentile-passivo-aggressivo che ti lascia con il dubbio: sto crescendo o sto solo imparando a non dare fastidio?

Così ho perso naturalezza.

Ho iniziato a stare attenta.

A evitare.

A muovermi con cautela, come si fa in casa altrui.

E la relazione, quella che dovrebbe essere il posto più tuo del mondo, è diventata un campo minato.

Diceva di essere un forziere.

Di quelli antichi, preziosi, con mille serrature.

“Solo chi mi merita può aprirmi”, ripeteva.

E io lì, ogni volta, a cercare la famosa chiave, come se l’amore fosse un quiz a premi.

Ma io non voglio “aprire” nessuno.

Non voglio essere quella che trova il codice segreto, la combinazione esatta, il gesto giusto.

Io non arrivo con il piede di porco emotivo.

Io arrivo con la valigia.

Con le mani piene di quotidianità. Con il corpo da condividere, il cuore da mostrare, la voce da usare. Con il desiderio semplice di esserci e stare.

E quel forziere? L’ho guardato bene.

Ci ho visto un vuoto.

Non il vuoto tragico.

Il vuoto decorato.

Un vuoto foderato di velluto. Ben impacchettato, incorniciato, lucidato ogni giorno con cura per sembrare raro, inaccessibile, desiderabile.

Ma pur sempre vuoto.

E io, che so vedere oltre, ho visto.

Ho visto la fragilità sotto la cornice. Ho visto il bambino che non si fida. Ho visto la paura di essere visto.

E per un po’ ho pensato che bastasse il mio amore.

Che se io restavo, lui si sarebbe fermato.

Che se io ascoltavo, lui avrebbe imparato a parlare.

E invece parlava solo per dettare regole. Non per costruire, ma per contenere.

Perché c’è una differenza enorme tra dire cosa non vuoi, e dire cosa sei disposto a costruire.

E lui quella parte lì, la parte costruttiva, viva, responsabile, non ce l’aveva.

Un uomo maturo, uno davvero grande, fa una cosa molto semplice:

Si siede.

Parla.

Ti guarda negli occhi e ti dice:

“Sento che qualcosa non va. Ma ho scelto te, voglio capire come andare avanti, insieme.”

Un uomo così non ti giudica al primo errore.

Non ti mette in punizione.

Non ti fa sentire sotto esame.

Custodisce.

Ricorda.

Ricostruisce.

Lui invece ha fatto l’opposto.

Ha perso l’occasione di vivere un amore reale.

Non perfetto, non scenico, ma profondo.

Con una donna che non voleva vincere nessun trofeo, ma semplicemente esserci. Con qualcuno che lo amava anche nel difetto, anche nel silenzio, anche nel giorno no.

Ha perso una grande occasione.

Con me, che avevo ancora lo spazio nel cuore per crederci.

Con sé stesso, che avrebbe potuto smettere di essere solo una bella scatola da esposizione.

Io non voglio l’amore come premio.

Non voglio guadagnarmi nessuno.

Non voglio sudare per un posto accanto a un re senza regno.

Voglio qualcuno che si sieda con me, nella stessa cornice. Che sappia che il valore non è nel bordo dorato, ma in quello che ci metti dentro.

Voglio un amore che si costruisce.

Dove oggi ti sostengo io, domani tu.

Dove si sbaglia, si inciampa, si ride e si chiede scusa.

Voglio un amore senza quiz, senza prove, senza trappole.

Non voglio più l’amore come obiettivo.

Voglio l’amore come casa.

Magari con meno campanellini.

E un po’ più di coraggio.

Alla fine, l’amore non è un quiz a premi: se devi sudare per un posto nel cuore di qualcuno, meglio puntare sul divano con una buona serie TV.

Self-love, incensi e deliri notturni: la guida per sopravvivere a te stessa (o almeno provarci)

Ci dicono continuamente di amarci.
Di amarci prima, amarci meglio, amarci sempre.

L’amore per se stesse è diventato una specie di must,
una parola d’ordine da ripetere come un mantra davanti allo specchio,
tra un sorso di centrifuga verde e una maschera detox.

Ce lo insegnano i libri, i podcast, le storie su Instagram
che si alternano a foto di gatti, tramonti e frasi motivate su uno sfondo beige.

“Ama te stessa.”
“Sei abbastanza.”
“Nessuno può darti ciò che non ti dai da sola.”

E allora ci proviamo.
Amati profondamente.
Amati prima di amare gli altri.
Come brave allieve della nuova scuola del benessere emotivo.

Amati mentre lavi i piatti,
mentre fai yoga con le braccia tremanti,
mentre ascolti podcast di donne che si sono ritrovate dentro un ritiro spirituale in Toscana.

E ok, ci sto.
Sul serio.
Ma a volte, anche con tutta la mia buona volontà,
anche dopo essermi fatta lo scrub corpo
e aver ripetuto “self-love is my birthright” per tre minuti davanti allo specchio

mi viene solo da guardare la luna e chiedermi:
“C’è qualcuno, da qualche parte, che mi sta pensando con amore?”

E non intendo pensare tipo “Sarà viva?”,
ma proprio con amore.
Quel pensiero che ti fa sentire meno sola anche se sei sul divano con una coperta
e Netflix che ti chiede per la terza volta se stai ancora guardando.

Facciamo yoga,
ascoltiamo playlist che si chiamano “self love vibes”,
ci regaliamo giornate detox con la scritta “me time” evidenziata sul calendario.

A volte ci concediamo quei piccoli rituali
che sembrano scritti in una sceneggiatura romantica:
un bagno caldo con sali rosa dell’Himalaya,
l’incenso al sandalo acceso con la cura di un rito giapponese,
jazz francese in sottofondo,
luce soffusa e il telefono lontano, lontanissimo.

Eppure, anche in quel momento perfetto,
in quell’istantanea da rivista, può arrivare la fitta.

Quella fessura nell’anima che ci ricorda che sì,
è bello amarci,
ma è anche bello — immensamente bello — sapere che qualcuno, da qualche parte, ci sta pensando.

Magari non lo ammettiamo.
Magari lo nascondiamo sotto pile di mindfulness,
meditazione,
obiettivi di carriera e solitudini ben organizzate.

Ma la verità è che, sotto tutto,
in fondo al fondo,
resta quel desiderio antico:
sentirci amati.

Non necessariamente da un partner,
ma da qualcuno.
Sentire che siamo nella testa e nel cuore di qualcun altro.
Che siamo abbastanza importanti da occupare uno spazio in una giornata.
Che ci sia qualcuno che guarda la luna nello stesso momento e, anche solo per un attimo, pensa:
“Chissà come sta.”

E in quel pensiero ci sentiamo più forti.
Più leggere.
Più vive.

Perché amarsi è bellissimo,
ma sapere che qualcuno, da qualche parte, ti ha pensata…
beh, quella roba lì ti rianima anche il cuore più chiuso.
Ti rimette in moto.

Come girelle impazzite al primo colpo di vento,
vorticose e colorate,
con l’energia esplosiva di chi si sente visto, scelto, considerato.

Abbiamo provato a sostituire questo bisogno con mille attività.

C’è chi si butta a capofitto nel lavoro,
chi diventa la regina degli hobby creativi,
chi si allena compulsivamente,
chi cura le piante come fossero neonati.

Altri si rifugiano nei figli,
amandoli con una dedizione così totale
da dimenticare perfino di passarsi il filo interdentale prima di dormire.

Altri ancora riversano tutto l’amore possibile sugli animali,
parlando con il cane: “Giornata lunga anche per te, eh?”
Che poverino ci guarda mentre gli spieghiamo i nostri traumi familiari
e noi lo umanizziamo così tanto da chiedergli se anche lui si sente trascurato.

Cerchiamo sbocchi, direzioni, contenitori dove versare l’amore che ci esplode dentro.
Perché sì, ne abbiamo tanto.
Ne abbiamo da vendere.
Abbiamo così tanto amore dentro che non sappiamo dove metterlo.

Un altro aspetto di cui nessuno parla abbastanza:
quanto amore abbiamo dentro da dare.

Siamo pieni.
Colmi.
Strabordanti.

E quando non troviamo dove metterlo,
quell’amore cerca una via d’uscita.

Allora lo diamo ai figli.
Li sommergiamo di attenzioni, affetto, zucchero e ansie.
Oppure lo diamo ai nostri animali domestici, umanizzandoli fino all’esaurimento:
parliamo con loro, chiediamo consigli, pretendiamo empatia.

Altri lo versano nel lavoro,
con dedizione e fuoco,
sperando che il successo restituisca almeno un po’ di calore.

E poi ci sono quelli che amano a caso. A tentoni.
Che buttano amore nel mondo sperando che qualcosa torni indietro.
Anche solo un messaggio, una canzone, uno sguardo.

Perché non ce la facciamo a tenere tutto dentro.
L’amore è una valigia senza chiusura.
La portiamo sempre dietro strapiena di sentimenti:
rossa, scomoda, traboccante, con la zip che cede,
e ogni tanto ci scappa qualcosa fuori: una lacrima, un pensiero, un bisogno.

E mi sono chiesta:
ma non sarà che il vero atto d’amore è lasciarsi amare?

Fidarsi.
Aprirsi.
Dire “ok, entra pure”,
anche con tutte le paure del caso.

Forse l’amor proprio è solo il punto di partenza.
Serve.
È fondamentale.
È la base.

Ma il salto, quello che ti fa sentire viva, piena, intera,
succede quando capisci che puoi essere amata davvero.
Senza performance.
Senza filtri.
Solo perché sei tu.
Esattamente così.

E allora ho pensato che forse non dobbiamo per forza bastarci.
Che non è un fallimento sentire il bisogno di qualcuno.
Che non è una debolezza chiedere di essere amati.

Magari è solo umanità.

Abbiamo riversato fiumi di emozioni nei libri,
nei film,
nella musica.

Abbiamo scritto romanzi, saggi, poesie, diari segreti, lettere d’amore mai spedite.

Platone ci ha raccontato, nel Simposio, che siamo anime divise,
e che amiamo per ricomporci.
Freud ci ha spiegato che l’amore nasce dalla mancanza.
Erich Fromm, in L’arte di amare, ci ha insegnato che l’amore è un atto di volontà,
non un colpo di fortuna.
E bell hooks ha scritto che l’amore non è un sentimento: è un’azione.
Un impegno.

Abbiamo letto tutto.
Abbiamo sottolineato.
Abbiamo anche fatto i compiti a casa.

Eppure eccoci qui.
Davanti alla luna,
ancora con quella domanda in sospeso sulle labbra.

Perché il punto è questo:
sentirsi amati è una rivoluzione silenziosa.

Da Platone a Fromm, da Sartre a bell hooks,
l’amore è sempre stato indagato, sezionato, messo sotto la lente.

È desiderio.
È mancanza.
È fusione.
È rispecchiamento.
È abisso e salvezza.
È il nostro specchio più feroce.

Eppure non ci stanchiamo mai di raccontarlo.

Il cinema, poi, ci ha cresciute a colpi di baci sotto la pioggia e messaggi scritti a mano.
Ci ha fatto piangere con Titanic,
sperare con Notting Hill,
illuderci con La La Land,
sognare con Before Sunrise,
ridere con Harry ti presento Sally.

L’amore è ovunque, ci dicono.
Ed è vero.

È nei piccoli gesti.
Nei silenzi che parlano.
Nelle attese.

È in quella lettera che arriva dopo mesi,
che leggiamo sedute sul letto con il cuore che batte come quello di una ragazzina al suo primo appuntamento.

È in un buongiorno ricevuto mentre si è in pigiama e con i capelli disordinati,
eppure si sente di avere qualcosa da offrire al mondo.

Ma poi, quando ci fermiamo, davvero,
e torniamo dentro di noi,
ci accorgiamo che, nonostante tutta la letteratura,
tutta la filosofia,
tutta la psicologia,
una sola domanda resta intatta nel cuore:
c’è qualcuno che mi ama?

Non nel senso romantico da film smielato,
ma in quel modo radicale in cui qualcuno ci vede davvero,
ci sente,
ci considera.

Perché è in quel momento che ci sentiamo parte.
Che ci sentiamo al centro di qualcosa,
anche solo per pochi istanti.

E quei pochi istanti bastano a farci girare, vibrare, vivere.

Ho conosciuto persone che hanno trasformato la loro assenza d’amore in carburante.
Hanno fatto carriera.
Hanno creato imperi.
Hanno decorato le loro case con una cura maniacale,
come se potessero trasformare il vuoto in bellezza.

Eppure bastava poco per farli crollare:
un silenzio,
una porta chiusa,
una sera in cui nessuno chiedeva “Come stai davvero?”.

Non sono un’ esperta d’amore.
E di certo non sono la persona giusta per dispensare consigli relazionali.

La mia vita sentimentale ha più disastri della filmografia di Woody Allen,
eppure qualcosa l’ho capito.

Quando qualcuno ci ama, davvero,
qualcosa in noi si riaccende.

E se quell’amore viene a mancare,
si spegne una luce.

Forse non del tutto.
Ma quel piccolo interruttore in fondo allo stomaco,
quello che ci fa brillare,
si offusca.

La vita continua, certo.
Ma ha meno sapore.

È come mangiare pasta in bianco
quando sai che in frigo c’era il ragù.

Basta una persona.
Una sola, che ci veda,
ci pensi,
ci scelga.

Ci possiamo riempire di incensi,
di sali,
di libri
e di frasi ispirate,
ma il cuore chiede una sola cosa:
essere riconosciuto.

Visto.
Amato.
Anche solo per un attimo.

Perché quando qualcuno ci ama,
anche il bagno con le candele diventa un rito sacro,
e anche la solitudine si trasforma in spazio sacro.

E allora sì, continuiamo ad amarci.
Ma smettiamola di farlo con la pretesa che ci basti per sempre.

Perché forse, l’amor proprio non è altro che prepararsi bene,
con oli, incensi e musica dolce,
per essere pronti,
quando l’amore vero bussa.

E accoglierlo.
E dirgli: “benvenuto, finalmente”.

Amore, una bici e poco senso della forza di gravità

Da piccola avevo una bici, una Graziella rosa. Non di quelle pieghevoli da zia depressa, no. Una vera Graziella: solida, fiera, con il manubrio a corna di bue, il sellino duro come la vita e quella scintilla rosa Barbie che ti faceva sentire una principessa del paesino, anche se avevi i denti storti e le ginocchia sempre sporche. Era il mio destriero a due ruote, e io mi sentivo invincibile. O almeno, così credevo.

Accanto a me, la mia migliore amica: due anni in più, uno spirito allegro e gentile, e un corpo che non conosceva il concetto di “taglia unica”. Io un rametto di rosmarino, lei un morbido abbraccio su due gambe. Creature diversissime, incollate da un affetto incrollabile e da una certa tendenza alle scelte disastrose. Insieme, sempre. Inseparabili. Complici perfette con una spiccata tendenza a cacciarsi nei guai.

Quel giorno, sottovalutando la forza di gravità come solo i bambini sanno fare, ebbi un’idea brillante: “Sali. Ti porto io”.

Sul portapacchi, ovvio.

Un oggetto che a malapena reggeva il cestino con dentro il mio Tamagotchi morente e un panino col salame, ma che io quel giorno avevo eletto a trono della fiducia.

Lei non ha esitato: una gamba, poi l’altra, e si è seduta. O meglio, si è incastrata. Come un cassetto IKEA montato male: traballante ma irrimediabilmente lì.

Ho iniziato a pedalare, convinta di poterla portare in giro come se niente fosse. E i primi due metri sono andati. Poi la fisica si è svegliata dal pisolino e ha preteso il conto. Zig a destra, zag a sinistra. Il manubrio sembrava posseduto, le ruote sembravano reduci da un aperitivo lungo, e noi sembravamo la controfigura ubriaca di una scena tagliata di E.T.. Solo che noi l’alieno non ce l’avevamo. E nemmeno il lieto fine.

“Ce la faccio!” gridavo, tutta determinazione e zero equilibrio. “Secondo me no,” rideva lei, con la calma zen di chi ha già capito che si finisce male ma vuole godersi il film.

Ogni metro era un nuovo livello di videogame: tra “forse ci riusciamo” e “oddio, ci schiantiamo”. Abbiamo attraversato il viale dei platani come Thelma & Louise, ma in slow motion e con molto più fiatone.

I vecchi sulle panchine scuotevano la testa, i cani abbaiavano, e il destino… rideva. Sghignazzava, direi.

Poi, inevitabile, il botto.

Un crash da manuale. Voliamo come sacchi di patate, rotoliamo come comparse mal pagate, atterriamo come dive dimenticate. Ginocchia sbucciate, gomiti doloranti, e dignità smarrita.

Ma poi, il miracolo. Ci guardiamo. E ridiamo.

Ridiamo come matte.

Ridiamo fino alle lacrime. Con i denti pieni di polvere, il fiato corto e l’anima ancora in volo. Una accanto all’altra, senza bisogno di parole.

Ridiamo perché siamo vive. E soprattutto, ridiamo perché siamo insieme. Doloranti, tremanti, impresentabili. Unite.

E in quella risata c’era tutto: la disfatta, la follia, l’amore, la sorellanza. Il “ti tengo anche quando cadi”.

Tornammo a casa come due reduci, zoppicanti e trionfanti, un’ immagine a metà tra Full Metal Jacket e Piccole Donne, eppure sembravamo due piccole eroine.

Ci disinfettarono con il mercurocromo – tintura miracolosa degli anni ’90, che ti faceva sembrare una veterana di guerra– ma la vera medicina era esserci ancora. Insieme, nonostante tutto. Anzi proprio grazie a quel tutto. Eravamo cadute ma nessuna di noi si era tirata indietro. Mano nella mano, con le ginocchia color fucsia e l’orgoglio delle guerriere sopravvissute, uscivamo di nuovo per il paese.

La bici era a pezzi. Noi? Sembravamo due semafori ambulanti, ma ogni passo dolorante era una dichiarazione d’amore. Ogni cicatrice una promessa:

Io ci sono. E io ci resterò.

Due mani strette pronte per la prossima avventura.

E anni dopo, mentre cercavo di capire dove fosse andata a schiantarsi la mia ultima relazione, mi è tornato in mente quel giorno.

La relazione era bella. Intensa. A tratti sembrava che il cuore ci avesse preso in pieno. Ma poi, com’era successo con quella bici, qualcosa ha iniziato a sbandare.

Zigzagavamo tra giorni pieni di luce e sere zeppe di silenzi. Ogni volta che pensavo “sta andando bene”, la ruota cedeva. E io lì, a stringere il manubrio con tutte le forze, convinta che bastasse pedalare più forte per non cadere.

Poi il botto.

E stavolta non ci siamo guardati. Non abbiamo riso. Nessuno ha portato il mercurocromo.

Dopo la caduta, lui si è alzato e se n’è andato. E io? Rimasta lì.

Polverosa, con le ginocchia dell’anima graffiate e quella frase che mi torna sempre in mente quando le cose belle finiscono troppo presto:

“Che occasione sprecata.”

A volte basterebbe così poco. Un sorriso invece di un muro. Una frase in più. Un “resto” invece di un “ciao”. Ma sai cosa ho capito grazie a quella caduta sulla Graziella?

Che chi resta con te quando sei a terra, chi ride anche mentre brucia, chi ti tiene la mano anche se non hai più un equilibrio, quello sì che vale.

Questa volta niente risate. Nessuna mano nella mano. Solo silenzio. Neanche una sfumatura di fucsia sulle sbucciature.

Un’assenza che faceva più rumore della caduta. E allora mi è tornata in mente quella scena con la mia amica. Il disastro. La risata. La cura. La presenza.

Io celebro chi resta. Chi inciampa con te e non scappa. Chi non fugge quando si rompe qualcosa, ma resta per vedere se si può aggiustare.

Chi ride, disinfetta. Chi complice e leggero ti dice ancora: “Quando si riparte?”

Se n’è andato. Io sono rimasta. Ginocchia sbucciate e quella fastidiosa certezza: che peccato.

Perché non è la caduta a fare paura. Lo è farla da soli. La differenza non la fa chi ti accompagna nei tratti lisci ma chi sa che l’amore vero è fatto anche di errori, rallentamenti, curve prese male. Fuoripista. E ginocchia rosso mercurocromo.

Meglio Iasciare andare chi se ne va. Perché chi fugge dalle cadute non avrebbe mai riso con me. Nemmeno da bambina.

Io continuo a pedalare. Traballante, ma convinta. Perché sì, ci sono i bottoni che saltano, le ginocchia che bruciano, i “che figuraccia” detti sottovoce.

Ma ci sono anche le persone che restano. Quelle che ridono con te anche nel fango.

Quelle che ti guardano con le ginocchia sbucciate e dicono:

“Che si fa, ripartiamo?”

E con loro – ci farei tutte le curve del mondo.

L’amore è un caos. E a volte il caos ti chiama in ambulanza.

Ci sono momenti in cui ti ritrovi a girare in tondo, passi giorni a cercare risposte, ma la verità arriva sempre da dove meno te l’aspetti, tipo un vecchio signore in ambulanza che ti spara un discorso da Oscar sull’ amore e il narcisismo.

E proprio quando pensi di aver capito tutto, scopri che la realtà è più cinica, più complicata… e decisamente meno romantica di quanto avresti voluto.

Inutile ripeterlo — ma eccoci: sono reduce da una rottura.
Di quelle che ti fanno svegliare ogni mattina con un nodo in gola e una domanda che batte in testa come una campana stonata:
“Cosa è successo davvero?”

Passo le giornate a farmi mille domande.
A rielaborare, scavare, capire.
Cerco risposte ovunque: nei ricordi, nei messaggi vecchi, perfino nei sogni più strani.
Come se bastasse un dettaglio, una frase, un’espressione, qualcosa che possa rimettere tutto al suo posto.

Mi interrogo, analizzo, immagino versioni alternative degli eventi.
Cerco risposte come chi rovista in una borsa troppo grande: con ansia, un filo di frustrazione, e quella vocina che sussurra:

“Forse le ho perse per sempre.”

E quando qualcosa finisce, ci si mette a cercare risposte ovunque.
Ma la vita, ogni tanto, è più brillante di qualsiasi libro di self-help: ti dà le risposte senza che tu le chieda.
Anzi, a volte te le lancia addosso come un secchio d’acqua gelata.

Oggi ero di turno per il mio volontariato in ambulanza.
Mentre aspettavamo la prossima chiamata, chiacchieravo con un collega.
Senza troppo preavviso, si è messo a parlarmi della sua relazione.
Diceva di aver imparato a stare accanto alla sua compagna, a comprenderla, a limare insieme a lei quei lati spigolosi che, ironia della sorte, somigliavano tanto ai miei.

“Restarle accanto non è stato troppo semplice. Quei tratti non mi piacevano molto.”

Gli ho chiesto: “Come hai fatto?”
E lui, senza pensarci troppo: “Perché l’ho scelta.”

Quella frase ha fatto rumore dentro di me.
L’amore, ho pensato, non è un colpo di fulmine eterno.
È una decisione quotidiana.
È restare, aggiustare, costruire.
È dire: “Io ci sono. Anche oggi.”

E proprio in quel momento, neanche a dirlo, arriva una chiamata.
Saliamo sull’ambulanza, e io parto con quella frase che mi rimbomba in testa come un mantra:

“Perché l’ho scelta.”

Poi accade l’assurdo.

Soccorriamo un uomo.
Magro, pallido, sulla settantina, con lo sguardo vuoto di chi ha perso qualcosa di enorme.
Lo chiamerò Luigi, per comodità narrativa.
Inizia a parlarmi.
Ma non parla del suo dolore fisico. No.
Parla di mal d’amore.

Parla di una donna che l’ha lasciato, due anni fa.
Di una relazione lunga, intensa. Di un amore profondo.
Io lo ascolto.
E qualcosa in me si apre, forse perché — senza dirlo — parlava anche di me.

A un certo punto mi guarda e dice:

“Sai, l’uomo ha bisogno prima di tutto del contatto visivo. Gli devi piacere. Deve volerti baciare.
Quando smette di desiderarti, smette anche di restare.
È crudele, lo so. Ma è così. Dopo i cinquanta, voi donne perdete fascino.
Non ci fate più lo stesso effetto.”

Mi chiedeva scusa mentre parlava, con amarezza unita a una dolcezza quasi infantile.

“Scusa, tesoro mio. Son crudo, ma è una verità triste.”

Poi abbassa lo sguardo.
E confessa:

“Sono stato un narcisista cronico. Amavo le donne per un po’, poi mi stancavo. Cercavo carne nuova.
Ma tutta quella ricerca non mi ha mai dato felicità.
Finché non ho rivisto lei.
Avevo già provato a stare con lei. Ma poi l’ho lasciata.”

“L’avevo sempre in testa, quella donna lì.
La prima volta è stato difficoltoso, un rapporto tumultuoso.
Lei cercava di farmi vedere com’ero, ma non le davo ascolto, non la capivo proprio.
Così l’ho lasciata. Lei aveva anche un figlio da un altro uomo.
Non la capivo.”

Poi, con gli anni, qualcosa in lui si è incrinato.
E ha cominciato a capire che quelle verità così sicure erano solo maschere.
Che l’amore vero non si regge sull’attrazione, ma sulla scelta.
Che non basta sentire qualcosa, bisogna esserci. Anche quando è difficile.
Soprattutto quando è difficile.

Il suo viso si fa triste, come chi custodisce un rimpianto troppo doloroso per essere pronunciato.

Poi, improvvisamente, si illumina:

“L’ho rivista e ho capito. Che volevo solo restare.
Che lei era la mia donna.
Tra miliardi, volevo solo lei.”

E mentre parla, io penso:
“Allora può succedere. Che un uomo capisca. Che scelga. Che resti.”

Luigi continua:

“Con lei ho imparato cos’è l’amore: costruire, parlare, cambiare, accettare.
Non essere perfetti, ma esserci. Sempre.
L’amore è restare. L’amore è scelta.
E soprattutto…
l’uomo ha bisogno di essere ammirato, idolatrato, sai?
Di sentirsi importante.
Come la donna ha bisogno di sentirsi sostenuta.
Se manca uno dei due, il legame si spezza.”

E lì, le sue parole si sono infilate nella mia pelle.
Mi si è accesa una verità.
Una di quelle che non vuoi sentire, ma sai che è vera.

Forse ha notato qualcosa nel mio sguardo.
Una luce diversa.
O forse solo una lacrima che non sono riuscita a trattenere.
Mi guarda e mi chiede:

“Perché secondo te il tuo compagno se n’è andato?”

Lo guardo.
E senza che il cervello abbia il tempo di intervenire, mi esce:

“Perché non l’ho idolatrato.”

Luigi sorride.
Non con scherno.
Con comprensione. Quella che senti quando qualcuno ha passato lo stesso dolore.

Poi aggiunge che la donna che amava — quella che aveva scelto — dopo diciassette anni lo ha lasciato.
Era distrutta per suo figlio, che aveva preso una brutta strada.
Il dolore per lui la consumava, e Luigi — parole sue — iniziava a sentirsi trascurato. Messo da parte.

Sì, bevevo un po’, ma non che sembravo ubriaco.
Solo… mi sentivo solo.
Forse lei ha smesso di vedermi.
Di ammirarmi.
Di idolatrarmi.”

E lì, un pensiero mi ha attraversato senza bussare.
Forse non era solo colpa del figlio.
Forse, mentre lei cercava di salvare quel ragazzo, lui si è sentito messo in panchina, escluso dalla partita.
Forse la sua solitudine non era davvero abbandono, ma solo un ego che faceva ancora i capricci, offeso dal fatto di non essere più al centro della scena.
O forse — e qui il dubbio punge come un tacco 12 a fine serata —
quella fragile forma di adorazione si è spenta giorno dopo giorno, semplicemente perché lui aveva smesso di esserci.

E allora mi sono chiesta: Luigi stava davvero raccontando la verità?
O si era solo confezionato una versione in cui appariva maturo, riflessivo, e tragicamente frainteso?

Poi ho pensato che forse non importa.
Perché in ogni storia finita ognuno scrive la propria sceneggiatura, da recitare allo specchio. E tutte, più o meno, hanno un pizzico di verità e una spruzzata di autoassoluzione.

Certo, Luigi parlava come se avesse appena pubblicato un libro dal titolo:

“Ora ho capito tutto (ma troppo tardi)”,

edizione economica, impilata tra le caramelle amare del rimorso che nessuno sa davvero masticare.
Peccato che certe realizzazioni arrivino quando ormai la porta è chiusa, la chiave smarrita,
e chi stava dall’altra parte si è messo il rossetto e ha ricominciato a vivere.

Forse oggi soffre perché ha capito.
O forse soffre perché non può più raccontarsela allo stesso modo.
E mentre parlava di scelta, di presenza, di costruzione…
mi è sembrato che quel vecchio vizio di scappare,
di idealizzare e poi disconnettersi,
fosse ancora lì, nascosto nei suoi gesti.
Come una giacca elegante che indossi per sembrare migliore, ma che ti pizzica sul collo ogni volta che provi a essere sincero.

Quell’incontro mi ha lasciato un sapore dolce.
Non per quello che è stato,
ma per ciò che mi ha confermato.

Perché forse, in qualcosa, mi sono riconosciuta.
Nel dolore. Nelle domande.
O forse proprio in quelle verità scomode che fingiamo di ignorare mentre sorridiamo forte e teniamo insieme i pezzi.

Perché a volte, per andare avanti, non servono risposte perfette.
Basta una frase che ti toglie l’alibi.
Un uomo pallido su un’ambulanza che, senza volerlo, ti restituisce uno specchio.

E lì capisci:
l’amore non è fuga teatrale.
Non è sparire e poi tornare con la scusa delle emozioni complesse.
Non è apparire solo quando è facile.
L’amore è restare.
È scegliere.
È costruire.
È, semplicemente, esserci.