Amare qualcuno che sembra un buco nero emotivo è un’esperienza unica. Ti risucchia tempo, energie, pazienza… come se fossi intrappolata in un’eterna partita a Tetris dove i pezzi non smettono mai di cadere, ma non riesci mai a completare una riga. Ti ritrovi a correre dietro a un’insaziabile che non si accontenta mai, come se la vita fosse una gara a chi accumula più stimoli e relazioni. Ma quando arriva il momento di godersi il paesaggio? Niente. Perché in fondo, l’unica cosa che davvero trattiene è quel malessere appiccicoso che ti lascia senza respiro. E tu? Tu sei lì, con la voglia di salvarlo, di capirlo, di essere quella che fa la differenza. Peccato che a volte, il vero buco nero sia proprio quel vuoto che nessuna cura riesce a riempire. Benvenuti in questa storia di amore, ansia e partite perse.

Mi manca.
Anche adesso.
Mi manca la sua quotidianità, le sue abitudini, i messaggi sparsi durante il giorno, i gesti che conoscevo a memoria.
Mi manca persino il modo in cui mi faceva arrabbiare. Ma non mi manca quella sensazione di costante compressione, di dover sempre trovare spazio dove lo spazio non c’era più.
Perché lui era così. Come un gas. Invisibile ma capace di entrare ovunque.
Non mi chiedeva di rinunciare a me. Ma in qualche modo lo facevo.
All’inizio c’erano delle regole. Una, in particolare: “Non farmi mancare le cose”. Voleva tempo, presenza, attività, esperienze. Non voleva limiti.
Sembrava una richiesta d’amore, invece era una clausola.
E io l’ho accettata.
Così ho cominciato a fare spazio. A rinunciare, a organizzare la mia vita intorno alla sua. Ho ridotto il tempo per mio figlio, per il mio lavoro, per me stessa.
Non gliel’ho fatto pesare. Mai.
Non lo sapeva, ma ogni volta che diceva “dai, usciamo” e io ero stanca, uscivo lo stesso.
Ogni volta che avevo un attimo libero, finiva per diventare tempo per lui.
Non perché lo pretendesse apertamente, ma perché lo dava per scontato.
Non organizzavo abbastanza, diceva. Non ero abbastanza “propositiva”, “entusiasta”, “sociale”.
Ma in realtà stavo già facendo i salti mortali solo per stargli dietro.
E anche se non organizzavo weekend in posti esotici o tavolate da venti persone, gli stavo consegnando qualcosa di più raro: la mia presenza.
Ma lui, come spesso accade a chi ha sempre fame, scambiava l’oro per cartone solo perché non luccicava abbastanza.
Con lui non bastava mai.
Era come versare acqua in un vaso senza fondo. Sempre alla ricerca di stimoli, compagnie, nuove relazioni, nuovi ambienti.
I momenti solo nostri sembravano annoiarlo.
Un pranzo semplice, una serata tranquilla, una giornata uguale alle altre… tutto gli sembrava troppo poco.
E quando qualcosa non era all’altezza delle sue aspettative, mi guardava come se fosse colpa mia.
Come se la responsabilità della sua insoddisfazione ricadesse su di me.
E lì iniziava il senso di colpa.
Come se non fossi abbastanza. Non interessante, non brillante, non stimolante.
Ma forse non era me che giudicava.
Forse non gli piaceva la sua vita, e cercava sempre qualcuno o qualcosa da incolpare.
Io sono diventata quel qualcosa.
E poi c’era la gara con il mondo. Invidiava gli altri, quelle vite apparentemente piene di colori e successi, eppure non assaporava nulla. Non ricordava i momenti belli, solo i fastidi. Diceva che gli dispiaceva, ma come si può ricordare un paesaggio se non ti fermi mai a guardarlo? È come scattare foto con un cellulare scarico: immagini sfocate e nessuna traccia indelebile. Solo un fastidio persistente, un malessere che si appiccica addosso come un vestito che non ti sta più bene.
La verità è che non era sempre una relazione felice. A tratti, sì. C’erano dei momenti. Ma la felicità non è un attimo da rincorrere, è uno stato che dovrebbe tornare. Con lui, si dissolveva. Perché quando finiva l’euforia iniziale, lui si spegneva. Non entrava mai nella fase successiva, quella dove si costruisce. Preferiva restare fermo nella nostalgia della partenza, senza mai arrivare davvero. Ha avuto tante storie, tutte simili: non andava mai oltre la chimica, quel momento magico e fugace dove tutto stimola. Poi, quando la magia svaniva, lui si stancava e mollava.
E io? Io non so se mi manca per amore, o per la voglia di salvarlo. Perché dentro quel caos avevo visto del bello, qualcosa che forse lui stesso aveva fagocitato o ingoiato troppo in fretta. Ho fatto da specchio, certo, ma uno specchio che rifletteva soprattutto il suo brutto, il suo malessere. E alla fine, chi non vuole vedersi davvero, non si vedrà nemmeno attraverso lo specchio più limpido.
Diceva che voleva tranquillità. Ma poi si irritava se le cose non erano abbastanza vive, abbastanza nuove, abbastanza da raccontare. Alzava la voce, pretendeva. Non cercava una connessione: cercava di non annoiarsi. Ma l’amore non è uno spettacolo continuo.
È anche ripetizione, consuetudine, silenzi.
E lui quei silenzi non li reggeva.
Non ricorda un viaggio per intero.
Non conserva una relazione fino in fondo.
Ha la memoria selettiva di chi scarta tutto, tranne i fastidi.
È capace di dimenticare le risate, ma non il tono sbagliato con cui gli hai risposto una volta.
È capace di cancellare la cura, ma tenere traccia di ogni piccolo inciampo.
Ora ho questo spazio tutto mio.
Non sempre lo riempio bene.
A volte ci inciampo.
A volte vorrei stringermi ancora a lui, solo per sentire qualcosa di familiare.
Ma poi ricordo com’era stare lì: sempre in corsa, sempre sotto esame, sempre in difetto.
E allora mi fermo.
Mi ascolto.
E capisco che forse, per la prima volta, sto imparando a respirare.
Alla fine non cercava una relazione, cercava un’agenzia viaggi, una cheerleader, e un sedativo contro la noia. Ma tutto incluso, amore mio, lo fanno solo i resort.










