L’arte di amarsi male: rinascere dalle macerie del narcisista

Ti sei mai sentita viva, speciale, scelta… eppure, giorno dopo giorno, consumata da qualcuno che diceva di amarti? Ti guardi allo specchio e non riconosci più te stessa, fragile e ferita, come se ogni respiro fosse un peso. Questo è il mio racconto sull’arte di amarsi male: di come sono stata manipolata, di come ho dubitato della mia memoria e della mia voce, e di come, tra le macerie di quell’inganno, ho cominciato finalmente a vedere.


All’inizio sembra amore.
Di quelli che ti travolgono, che ti fanno credere che tutto il dolore del passato serviva solo per arrivare fin lì.
Mi guardava come se fossi la risposta a tutte le sue domande, la persona che aspettava da sempre.
Mi diceva che ero l’unica, che con me era diverso, che non riusciva a staccarsi perché “non aveva mai provato niente di simile”.
E io ci ho creduto.
Ho creduto che fosse destino.
In realtà era un incantesimo. Il più crudele di tutti.

Perché mentre io costruivo un legame, lui costruiva un teatro.
E in quella scena perfetta, io recitavo la parte della donna speciale, quella che lo avrebbe salvato.
Non sapevo che nel copione era già scritta anche la mia caduta.

Poi, un giorno, qualcosa è cambiato.
Non so dire quando, forse dopo sei mesi, forse un po’ di più.
Ha cominciato con le critiche sottili, quelle che sembrano piccole ma scavano dentro:
“Non sei più quella di prima.”
“Sei troppo sensibile.”
“Hai capito male.”
Ogni volta una lama, nascosta sotto il tono calmo, l’aria sicura di chi “sa come stanno le cose”.
E io, piano piano, ho smesso di fidarmi di me stessa.

Mi diceva che ricordavo male, che inventavo, che ero confusa.
Ero arrivata a dubitare della mia memoria. Della mia percezione. Della mia voce.
Ero diventata minuscola.
Camminavo sulle uova, cercando ogni giorno di non dire, non fare, non pensare nulla che potesse “disturbarlo”.
Mi svegliavo sperando che quella fosse la giornata in cui mi avrebbe guardata di nuovo come all’inizio.
Non arrivava mai.

È così che si muore da vivi.
Un centimetro alla volta.
Nel silenzio.
Nell’attesa.
Nell’illusione che se ami abbastanza, l’altro smetterà di farti male.

E poi, come se non bastasse, è stato lui a lasciarmi.
Con una freddezza che ancora oggi mi gela.
Dopo avermi svuotata, mi ha gettata via come se fossi un errore da cancellare.
Mi ha ignorata, come se non fossi mai esistita.
E lì ho toccato il fondo.
Un fondo nero, dove non c’è più suono, né senso, né respiro.

Ti senti spezzata, sbagliata, ridicola per aver creduto così tanto.
Ma è proprio lì, tra le macerie, che succede qualcosa:
la lucidità ricomincia a filtrare.

Inizi a vedere.
A ricordare le manipolazioni, le bugie, il gaslighting.
A capire che non eri tu quella “troppo sensibile”.
E che quell’amore non era amore: era controllo, dipendenza, teatro.

Perché nel silenzio, quando non hai più nulla da perdere, ti accorgi che hai ancora te stessa.
Ho iniziato a ricordare. A mettere insieme i pezzi.
Ho capito che non ero pazza: ero stata manipolata.
Che non ero debole: ero stata ferita.
E che non ero “troppo sensibile”: ero solo viva.

Oggi so che l’amore non è ciò che ti fa tremare.
Non è ciò che ti spegne la voce.
Non è chi ti guarda con ammirazione per poi distruggerti con il dubbio.
L’amore vero non ti annebbia: ti illumina.
Non ti consuma: ti costruisce.
Non ti fa camminare sulle uova, ma a piedi nudi, libera, sulla terra ferma della tua verità.

Sì, ho sofferto.
Ho pianto fino a svuotarmi, ho urlato nel silenzio, ho odiato me stessa per averci creduto.
Ma oggi, a distanza di mesi, c’è un nuovo spazio dentro di me: limpido, solido, mio.
Non mi serve più che qualcuno mi scelga.
Perché finalmente mi sono scelta io.

Ora so che l’arte di amarsi male è una lezione.
Una ferita che si trasforma in sapienza.
Una cicatrice che ti insegna la forma dell’amore autentico.

L’amore non è un teatro, non è una lotta, non è una cura.
L’amore è casa.
E se non ti senti a casa, non è amore.

Mi sono amata male, ma ho imparato.
Ho attraversato la mia distruzione per incontrare la mia verità.
E da lì non torno più indietro.

L’arte di amarsi male non è un fallimento:
è solo il primo capitolo dell’arte di rinascere bene.

E se anche tu che leggi ti senti svuotata, persa, annientata…
ascoltami: non è la fine.
È solo l’inizio del ritorno a casa.

Con amore

Elena

Amavo te, non il tempo

Ci sono momenti in cui le parole diventano troppo pesanti per restare dentro. Ci sono frasi che ti trafiggono e ti ricordano tutto quello che hai dato, tutto quello che hai creduto vero, e che oggi sembra non contare più nulla. Oggi scrivo perché devo dare voce a questo dolore, perché devo urlare su carta quello che il cuore non riesce a contenere. Non cerco consolazione, non voglio spiegazioni. Voglio solo liberarmi del vuoto che mi divora.


Oggi la ferita si riapre.

Non si è mai davvero chiusa, ma oggi brucia come se fosse fresca. È una di quelle giornate in cui il dolore non accenna a farsi lieve, in cui i ricordi non consolano, ma colpiscono come lame. Oggi mi manchi. Mi manchi terribilmente. Perché io ero davvero innamorata. Io tenevo a noi, io ci credevo fino in fondo. Ogni gesto, ogni parola, ogni tuo abbraccio aveva per me un valore assoluto. Non era un gioco, non era un passatempo, era vita. Era la mia vita intrecciata alla tua.

E invece adesso mi ritrovo qui, sommersa da domande che non hanno risposta.

Due giorni fa ci siamo rivisti. Abbiamo parlato a lungo. Ma una tua frase mi risuona dentro senza tregua:

“Cosa sono, in fondo, un anno e nove mesi?”

Un anno e nove mesi. Per te, solo un numero. Per me, un universo.

Non erano giorni da contare, erano respiri condivisi. Erano notti in cui bastava voltarmi e sapere che c’eri. Erano mani intrecciate, sorrisi che scioglievano i miei silenzi, sguardi che non avevano bisogno di parole.

Come puoi ridurre tutto questo a un tempo trascorso? Come puoi dire che non è niente?

Non è il tempo, è quanto ti ho amato. È come ti ho amato. E oggi non riesco a riconciliarlo con la freddezza che porti nelle tue parole. Chi sei diventato? Chi è quest’uomo capace di guardarmi senza tremare, di pronunciare frasi che pesano come colpi? Quanto valore hai dato al mio cuore, se adesso lo lasci in frantumi senza voltarti indietro?

Eppure tu c’eri. Tu mi stringevi, tu mi scaldavi, tu mi facevi credere che fossi la tua casa, il tuo rifugio. Non me lo sono inventato: l’ho vissuto. Ti ho visto, ti ho sentito, ti ho amato. Io non ero sola. Ed è proprio questo a straziarmi: sapere che quell’uomo che allora mi amava adesso non c’è più. O forse c’è ancora, ma lo hai sepolto sotto strati di freddezza e distanza. Sono incredula.

Non ti riconosco.

E non riconosco neanche più me stessa. Le lacrime non si fermano. Ogni ricordo che dovrebbe accarezzarmi diventa invece un coltello. Mi manca tutto: la tua voce, le tue mani, la normalità di un “noi” che mi sembrava eterno. Mi manca persino la certezza che, al di là del mondo, ci fossi tu. E allora mi domando: se è stato amore, perché oggi non resta nulla? Se era vero, perché è finito così? E se era vero per me, lo era anche per te? O sei stato tu a cambiare, a lasciar cadere tutto come se fosse solo sabbia tra le dita?

Nietzsche diceva: “La memoria dice: ho fatto questo. Il cuore dice: non posso averlo fatto.” Ed è lì che vivo adesso, sospesa tra la memoria che mi parla di un amore vivo, reale, tangibile, e il presente che mi sbatte in faccia la sua assenza. Oggi non c’è speranza. Non c’è pace. Non c’è respiro. Oggi ci sei solo tu che manchi.

E io che non smetto di chiedermi come sia possibile.

Tra il volo e il ritorno: l’amore che tu non hai capito

Between Flight and Return: The Love You Never Understood

Seduta al mio tavolo, con un bicchiere di vino troppo pieno e il cuore troppo vuoto, mi sono chiesta: perché quando qualcuno se ne va, lascia dietro di sé un’eco che fa più rumore della sua presenza? Forse amiamo davvero male, ci illudiamo che due cuori spezzati possano ricomporsi solo incollandosi insieme. Ma l’amore, quello autentico, non ha bisogno di stampelle: sa stare in piedi da solo, sa restare, e soprattutto… sa tornare.

Sitting at my table, with a glass of wine too full and a heart too empty, I asked myself: why is it that when someone leaves, they leave behind an echo louder than their presence ever was? Maybe we really do love badly. We fool ourselves into thinking that two broken hearts can be mended just by gluing them together. But love—the real kind—doesn’t need crutches. It knows how to stand on its own, how to stay, and above all… how to come back.

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Ho bevuto un po’.
E, paradossalmente, è proprio quando il bicchiere è vuoto che la verità si riempie.

Il mio compagno se n’è andato.
Una notte d’estate, calda, profumata di gelsomino e bugie. Ha preso le sue cose e con esse ha preso anche me, strappandomi via da me stessa. E io resto qui, a chiedermi: quando ci fidiamo davvero di qualcuno, siamo mai pronte a quando ci abbandona?

“Dovevo salvare me stesso”, mi ha detto.
E allora mi chiedo: salvarti da cosa? Da me? O dal coraggio che non hai mai avuto?

Non entrare in una relazione se per stare in piedi devi far tacere i tuoi fantasmi, se pensi che l’amore sia un teatro dove recitare un copione già scritto. L’amore non è un sipario che si chiude all’improvviso. L’amore è una casa che ti accoglie anche quando arrivi con le scarpe sporche e il cuore a pezzi.

Io le mie ombre le ho messe in luce.
Le ho esposte, tremando, nuda e vulnerabile.
Non è questo l’amore? Guardarsi senza veli, rimanere nonostante la paura, evolvere insieme?

E invece no.
Io ho dato il mio cuore a un regista che voleva solo applausi facili.
Ho vissuto un teatrino di sorrisi a intermittenza, senza capire che, dietro il sipario, qualcuno stava già preparando l’uscita di scena.

Ma ditemi: cos’è l’amore se non posso mostrarmi nuda, disarmata, imperfetta?
Cos’è l’amore se non mi lascia la libertà di sbagliare e la forza di restare?

Un amore che non ti smuove, che non ti spezza e non ti ricostruisce, non è amore. È un analgesico da banco. Ti anestetizza, non ti cura.

Allora, se non sei pronto, non venire.
Maschera pure la tua vita con la neutralità, inventati un carnevale di felicità di cartapesta, e scappa.
Ma lascia stare le donne vere. Quelle che ti vedono, anche dove non vuoi essere visto.


Qualche giorno fa ho raccolto un piccione caduto dal nido.
L’ho amato, nutrito, curato. Quando è stato pronto, ho aperto la finestra e l’ho lasciato volare.
Il volo più bello è quello che sceglie la libertà.

Dopo due giorni era lì, di nuovo sul mio balcone.
Libero. Ma tornato.
E mi ha insegnato qualcosa che tu non hai mai capito: l’amore è fatto di andare… ma anche di tornare. Sempre.


Forse l’amore è proprio questo: l’equilibrio fragile tra il volo e il ritorno.
E io, con un bicchiere di vino in mano e il cuore in frantumi, mi domando:

quanti uomini sanno davvero tornare a casa?


I’ve had a drink.
And, paradoxically, it’s only when the glass is empty that the truth fills up.

My partner left.
On a summer night, warm, scented with jasmine and lies. He took his things, and with them, he took me too—ripping me away from myself. And I’m left here, asking: when we truly trust someone, are we ever ready for the moment they abandon us?

“I had to save myself,” he told me.
And I wonder: save yourself from what? From me? Or from the courage you never had?

Don’t get into a relationship if standing on your own means silencing your ghosts, if you think love is just a stage where you act out a script already written. Love is not a curtain that falls without warning. Love is a home that welcomes you even when you walk in with dirty shoes and a broken heart.

I brought my shadows into the light.
I laid them bare—trembling, naked, vulnerable.
Isn’t that what love is? To look at each other without disguises, to stay despite the fear, to evolve together?

But no.
I gave my heart to a director who only wanted easy applause.
I lived a little theater of on-and-off smiles, never realizing that, behind the curtain, someone was already preparing their exit.

But tell me: what is love if I can’t show myself naked, defenseless, imperfect?
What is love if it doesn’t give me the freedom to fail and the strength to stay?

A love that doesn’t move you, break you, and rebuild you isn’t love. It’s an over-the-counter painkiller. It numbs you—it doesn’t heal you.

So, if you’re not ready, don’t come.
Mask your life with neutrality, build yourself a carnival of paper-mâché happiness, and run.
But leave real women alone. The ones who see you, even where you don’t want to be seen.

A few days ago, I picked up a pigeon that had fallen from its nest.
I loved him, fed him, cared for him. When he was strong enough, I opened the window and let him fly.
The most beautiful flight is the one that chooses freedom.

Two days later, he was there—back on my balcony.
Free. But returned.
And he taught me something you never understood: love is about leaving… but also about coming back. Always.

Maybe that’s what love really is: the fragile balance between flight and return.
And I, with a glass of wine in my hand and a shattered heart, can’t help but wonder:

how many men really know how to come back home?

Mi fidavo di te

Lettera a chi non è più qui

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Cosa resta quando qualcuno che credevi sarebbe rimasto per sempre, se ne va? Non parlo di una separazione qualsiasi: parlo del vuoto che ti divora dall’interno, del silenzio che pesa più di mille urla, della ferita che non smette di sanguinare. Scrivo a te, anche se forse non leggerai mai queste parole. Scrivo perché se non posso dirtelo, almeno posso dirlo a me stessa… e a chiunque abbia mai sentito lo stesso gelo nell’anima.

Non so da dove cominciare. Forse dal silenzio che mi hai lasciato, da questo vuoto che non si colma. Oppure dal dolore che mi stringe le ossa e mi impedisce di respirare. O forse dovrei solo partire da ciò che sento: la ferita invisibile che hai lasciato, quella che brucia anche quando cerco di ignorarla.

Mi tenevi stretta. Mi stringevi come se il mondo non potesse toccarmi, come se tra le tue braccia ci fosse un rifugio eterno. Non mi hai mai detto “per sempre”, è vero. Ma tra i nostri sguardi, tra i nostri silenzi, tra le mani intrecciate, c’era la promessa di un noi che sembrava invincibile. Io ci credevo. Io mi fidavo.

E poi sei sparito. E io continuo a chiedermi perché. Perché hai scelto di lasciar andare tutto ciò che avevamo costruito insieme? Perché hai deciso che quel “noi” non bastava più? Questo dolore è un eco che rimbalza in ogni stanza vuota, in ogni battito che sente la tua assenza. È un bruciore costante, un gelo che mi attraversa l’anima.

Eppure, nonostante tutto, ti sento ovunque. Nel vento che mi accarezza il viso, nel riflesso di uno sguardo che incrocio per strada, in una canzone che mi trafigge come un coltello. Sei nell’aria e io non riesco a scappare. Ogni cosa ricorda che non ci sei più.

Com’è possibile? Chi mi abbracciava fino a un mese fa oggi non ha più nulla da dare. Com’è possibile che tu non senta la delusione, l’amarezza, il veleno che hai lasciato dentro di me? Mi hai tolto tutto in una sera d’estate. Io volevo solo stringerti più forte, e invece tu te ne sei andato, portandoti via sogni, speranze e ricordi silenziosi che erano solo nostri.

E io resto qui, rotta, spezzata, incapace di arrendermi. Perché c’è ancora troppo amore dentro di me. Troppi ricordi che gridano nella notte. Troppa fiducia che avevo riposto in te e che oggi è la mia ferita più grande.

Forse un giorno imparerò a convivere con questa assenza. Forse un giorno riuscirò a guardare indietro senza tremare. Ma non oggi. Oggi sento ancora la tua voce nell’aria, il tuo profumo nei tessuti vuoti, la tua presenza che si riflette in ogni ombra della casa. E il pensiero che le tue braccia, che erano la mia casa, ora siano chiuse… ma non per me, mi toglie il respiro. Tu sei libero, e io resto con pezzi di vetro conficcati nel cuore.

Mi fidavo di te. Io mi fidavo.
E questa fiducia, adesso, è la ferita che non smette di sanguinare.

Forse è proprio per questo che scrivo: perché se non posso dirtelo direttamente, almeno queste parole possano attraversare il mondo. E a chi ha sentito la stessa assenza, lo stesso gelo tra le ossa, possano ricordare che non siamo soli. Che il dolore, per quanto lacerante, è anche un filo invisibile che ci lega a chi ci ha amato… e che abbiamo amato.

E mentre scrivo queste parole, mi rendo conto di una cosa: forse non era mai stato il “per sempre” che cercavo. Forse l’amore non è fatto per rimanere in un solo cuore, e non è colpa di chi se ne va se non può portarne il peso da solo. Ma io… io resto qui, con le mani vuote e il cuore pieno, imparando lentamente che amare non significa possedere, e che anche il dolore più acuto può insegnarti chi sei.

E allora, in un mondo che continua a girare senza di te, scelgo di restare. Scelgo di sentire. Scelgo di vivere, anche se questo significa sentire ancora ogni pezzo di te in ogni battito del mio cuore.

Perché forse, un giorno, guardando indietro, capirò che l’amore non muore mai del tutto. Si trasforma, sopravvive, e ci insegna che anche quando ci sentiamo spezzati, siamo ancora capaci di sentire. Ancora capaci di amare. Ancora capaci di respirare.

E in quel momento, forse, mi sorriderai in qualche ricordo lontano, e io saprò che tutto ciò che abbiamo avuto non è stato vano.

Discutere con lui? Meglio un drink. Discutere con l’altro? La festa comincia

Ci sono uomini con cui discutere è come ordinare un cocktail al bar: si sorseggia piano, si fa qualche smorfia, ma alla fine è meglio lasciar perdere e cambiare discorso. E poi ci sono quelli con cui la discussione diventa la festa, il momento in cui la musica si alza, le parole si intrecciano e, tra un brindisi e un confronto, nasce qualcosa di vero. Stamattina, in ufficio, un ex collega mi ha fatto riflettere proprio su questa differenza. Perché per alcuni uomini il confronto è un peso insopportabile, mentre per altri è il cuore pulsante di ogni relazione?

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Stamattina in ufficio, tra una riunione evaporata e un caffè troppo lungo per essere solo una pausa, un ex collega mi guarda e, con quella naturalezza un po’ morbida che solo chi ti ha già vista sopravvivere alle peggio cose può permettersi, mi chiede:
Ma come mai se n’è andato?

Ho preso un respiro. Non quello teatrale, ma uno di quelli veri. Quelli che servono a dire una cosa semplice che, però, ogni volta ti punge.
Diceva che discutevamo troppo. Che le discussioni lo appesantivano.”

Lui ha sorriso. Quel sorriso strano che alcuni uomini, pochi, rari, riescono a fare quando sanno che le parole delle donne non sono bombe, ma finestre.
Guarda che sono proprio quelle a tenere insieme una coppia. Le discussioni. I confronti. Ci stanno. Sono sane.

E in quel momento, tra la macchina del caffè e la stampante in errore, mi sono ritrovata a fare ciò che so fare meglio: ripensare a tutto.
Perché com’è possibile che due uomini, stesse molecole, stesso secolo, possano avere una visione così diversa della stessa cosa?

Uno che dal confronto scappa come se avesse visto la bolletta della luce.
L’altro che lo accoglie come se fosse un brindisi a fine giornata.

Il mio compagno (ex ormai) odiava discutere. Non “non preferiva”. Non “lo gestiva male”.
Lo odiava proprio.
Diceva che lo appesantiva. Che gli lasciava addosso una strana stanchezza. Che non serviva parlare così tanto.
Che certe cose non servono, forse si sentono, ma non si dicono.

Eppure io, quando parlavo, non stavo cercando di ferirlo.
Stavo cercando di avvicinarmi.
Come quando cammini in punta di piedi su un pavimento che scricchiola, ma vuoi comunque arrivare dall’altra parte.

Volevo solo che sapesse che certe parole non sono lamenti, sono chiavi.
Chiavi che aprono porte. O almeno ci provano.

Ma lui chiudeva tutto.
Serrande emotive abbassate.
Cortocircuiti lessicali.
Abbiamo chiarito, per me non serve dire altro.”
E poi, silenzio.

Nel frattempo, il mio ex collega, lo stesso che una volta ha dimenticato il compleanno della moglie ma ha saputo chiederle scusa senza inventarsi traumi infantili, mi dice:
Le discussioni servono. Sono lo spazio dove si cresce.”

E ho pensato: forse non è il confronto a spaventare certi uomini. È lo specchio.

Perché discutere, davvero, non significa vincere.
Significa mettersi nudi, e non nel modo carino delle domeniche lente, ma nudi emotivamente.
Significa dire: “Questa parte di me ti dà fastidio, lo so. Ma è comunque me. Ci stai?”

C’è chi ci sta.
C’è chi scappa.
E c’è chi si infila sotto il letto emotivo e finge di dormire finché la tempesta non passa.

La psicologia, ovviamente, ci mette il timbro.
Gli evitanti non reggono il confronto perché lo vivono come minaccia.
I sicuri, invece, ci si buttano dentro. Sanno che non c’è amore senza attrito.
Che non si costruisce niente su un tappeto di “tutto bene”.

Anche Eraclito, che probabilmente avrebbe fatto il ghostwriter perfetto per certe newsletter motivazionali, l’aveva capito:

“Il conflitto è padre di tutte le cose.”

Ma noi continuiamo a cercare relazioni inodori, incolori, emozionalmente senza grassi.
Come se potessimo amare senza sudare, legarci senza inciampare, restare senza parlarci davvero.

Forse il mio compagno non fuggiva da me.
Fuggiva da se stesso.
Fuggiva dall’idea che amare significasse anche stare dentro un campo di battaglia senza armi, con solo due cuori e qualche parola stortissima tra i denti.
Forse il confronto lo appesantiva perché lo costringeva a sentire.
E sentirsi, per chi non ha fatto pace con sé, pesa più di qualsiasi litigio.

Il mio collega, invece, ha detto una cosa semplice. Quasi banale, se non fosse così profondamente vera:
Ci stanno, le discussioni.

Come a dire:
Ci sto, quando vuoi parlare.

E allora mi sono chiesta, io che ogni tanto scrivo per capire più che per spiegare,
e se il problema non fosse tanto quanto discutiamo…
…ma quanto siamo disposti a restare, davvero, mentre lo facciamo?

E se, per certi uomini, non fosse la discussione in sé a pesare,
ma il fatto che qualcuno li guardi senza filtri, senza scappatoie, senza via di fuga?

Forse non era il tono della mia voce a creare distanza.
Forse era il contenuto del mio cuore, troppo vero, troppo nudo, che faceva paura.


Morale?
Ci sono uomini che fuggono dalle discussioni perché temono il disordine che le parole possono portare.
Ma il vero punto non è quanto si discute, bensì con chi scegli di restare, e chi ha il coraggio di ascoltare anche quando fa male.
Come sottolinea la psicologa Sue Johnson, esperta di terapia di coppia:

Il conflitto, se gestito con sicurezza, è la linfa vitale di ogni relazione profonda.”
Perché discutere non significa distruggere, ma costruire, insieme.

Relazioni da vaso senza fondo: quando l’insaziabile diventa il tuo hobby preferito

Amare qualcuno che sembra un buco nero emotivo è un’esperienza unica. Ti risucchia tempo, energie, pazienza… come se fossi intrappolata in un’eterna partita a Tetris dove i pezzi non smettono mai di cadere, ma non riesci mai a completare una riga. Ti ritrovi a correre dietro a un’insaziabile che non si accontenta mai, come se la vita fosse una gara a chi accumula più stimoli e relazioni. Ma quando arriva il momento di godersi il paesaggio? Niente. Perché in fondo, l’unica cosa che davvero trattiene è quel malessere appiccicoso che ti lascia senza respiro. E tu? Tu sei lì, con la voglia di salvarlo, di capirlo, di essere quella che fa la differenza. Peccato che a volte, il vero buco nero sia proprio quel vuoto che nessuna cura riesce a riempire. Benvenuti in questa storia di amore, ansia e partite perse.

Mi manca.

Anche adesso.

Mi manca la sua quotidianità, le sue abitudini, i messaggi sparsi durante il giorno, i gesti che conoscevo a memoria.
Mi manca persino il modo in cui mi faceva arrabbiare. Ma non mi manca quella sensazione di costante compressione, di dover sempre trovare spazio dove lo spazio non c’era più.
Perché lui era così. Come un gas. Invisibile ma capace di entrare ovunque.
Non mi chiedeva di rinunciare a me. Ma in qualche modo lo facevo.

All’inizio c’erano delle regole. Una, in particolare: “Non farmi mancare le cose”. Voleva tempo, presenza, attività, esperienze. Non voleva limiti.
Sembrava una richiesta d’amore, invece era una clausola.
E io l’ho accettata.

Così ho cominciato a fare spazio. A rinunciare, a organizzare la mia vita intorno alla sua. Ho ridotto il tempo per mio figlio, per il mio lavoro, per me stessa.
Non gliel’ho fatto pesare. Mai.
Non lo sapeva, ma ogni volta che diceva “dai, usciamo” e io ero stanca, uscivo lo stesso.
Ogni volta che avevo un attimo libero, finiva per diventare tempo per lui.
Non perché lo pretendesse apertamente, ma perché lo dava per scontato.
Non organizzavo abbastanza, diceva. Non ero abbastanza “propositiva”, “entusiasta”, “sociale”.
Ma in realtà stavo già facendo i salti mortali solo per stargli dietro.
E anche se non organizzavo weekend in posti esotici o tavolate da venti persone, gli stavo consegnando qualcosa di più raro: la mia presenza.
Ma lui, come spesso accade a chi ha sempre fame, scambiava l’oro per cartone solo perché non luccicava abbastanza.

Con lui non bastava mai.
Era come versare acqua in un vaso senza fondo. Sempre alla ricerca di stimoli, compagnie, nuove relazioni, nuovi ambienti.
I momenti solo nostri sembravano annoiarlo.
Un pranzo semplice, una serata tranquilla, una giornata uguale alle altre… tutto gli sembrava troppo poco.
E quando qualcosa non era all’altezza delle sue aspettative, mi guardava come se fosse colpa mia.
Come se la responsabilità della sua insoddisfazione ricadesse su di me.

E lì iniziava il senso di colpa.
Come se non fossi abbastanza. Non interessante, non brillante, non stimolante.
Ma forse non era me che giudicava.
Forse non gli piaceva la sua vita, e cercava sempre qualcuno o qualcosa da incolpare.
Io sono diventata quel qualcosa.

E poi c’era la gara con il mondo. Invidiava gli altri, quelle vite apparentemente piene di colori e successi, eppure non assaporava nulla. Non ricordava i momenti belli, solo i fastidi. Diceva che gli dispiaceva, ma come si può ricordare un paesaggio se non ti fermi mai a guardarlo? È come scattare foto con un cellulare scarico: immagini sfocate e nessuna traccia indelebile. Solo un fastidio persistente, un malessere che si appiccica addosso come un vestito che non ti sta più bene.

La verità è che non era sempre una relazione felice. A tratti, sì. C’erano dei momenti. Ma la felicità non è un attimo da rincorrere, è uno stato che dovrebbe tornare. Con lui, si dissolveva. Perché quando finiva l’euforia iniziale, lui si spegneva. Non entrava mai nella fase successiva, quella dove si costruisce. Preferiva restare fermo nella nostalgia della partenza, senza mai arrivare davvero. Ha avuto tante storie, tutte simili: non andava mai oltre la chimica, quel momento magico e fugace dove tutto stimola. Poi, quando la magia svaniva, lui si stancava e mollava.

E io? Io non so se mi manca per amore, o per la voglia di salvarlo. Perché dentro quel caos avevo visto del bello, qualcosa che forse lui stesso aveva fagocitato o ingoiato troppo in fretta. Ho fatto da specchio, certo, ma uno specchio che rifletteva soprattutto il suo brutto, il suo malessere. E alla fine, chi non vuole vedersi davvero, non si vedrà nemmeno attraverso lo specchio più limpido.

Diceva che voleva tranquillità. Ma poi si irritava se le cose non erano abbastanza vive, abbastanza nuove, abbastanza da raccontare. Alzava la voce, pretendeva. Non cercava una connessione: cercava di non annoiarsi. Ma l’amore non è uno spettacolo continuo.
È anche ripetizione, consuetudine, silenzi.
E lui quei silenzi non li reggeva.

Non ricorda un viaggio per intero.
Non conserva una relazione fino in fondo.
Ha la memoria selettiva di chi scarta tutto, tranne i fastidi.
È capace di dimenticare le risate, ma non il tono sbagliato con cui gli hai risposto una volta.
È capace di cancellare la cura, ma tenere traccia di ogni piccolo inciampo.

Ora ho questo spazio tutto mio.
Non sempre lo riempio bene.
A volte ci inciampo.
A volte vorrei stringermi ancora a lui, solo per sentire qualcosa di familiare.
Ma poi ricordo com’era stare lì: sempre in corsa, sempre sotto esame, sempre in difetto.

E allora mi fermo.
Mi ascolto.
E capisco che forse, per la prima volta, sto imparando a respirare.


Alla fine non cercava una relazione, cercava un’agenzia viaggi, una cheerleader, e un sedativo contro la noia. Ma tutto incluso, amore mio, lo fanno solo i resort.

Il monaco zen che odiava le discussioni (e le capre in salotto)

Odiava le discussioni, diceva. Io odiavo il silenzio che ne seguiva. Ma la verità? Nessuno dei due era innocente. Perché a volte il vero problema non è chi parla o chi tace, ma quello che scegliamo di non vedere. Pronti a scoprire cosa succede quando l’amore diventa un monaco zen che cerca di scappare dalle sue stesse capre?

Ci sono frasi che ti restano appiccicate addosso come una colla industriale: invisibili, ma ci metti anni a liberartene.
Una di queste, nel mio caso, è:
Io non voglio discussioni. Mi appesantiscono.”

Sembrava quasi una dichiarazione di intenti da uomo saggio.
Uno di quelli che meditano prima di rispondere, che parlano sottovoce per non disturbare l’universo.

Ma no.
Lui non evitava le discussioni per amore della pace. Le evitava perché lo destabilizzavano. Perché lo facevano arrabbiare. E tanto.
Perché in mezzo a un confronto perdeva controllo, lucidità, e pure una discreta quantità di rispetto.

Il problema non era la discussione. Era quello che saltava fuori da lui durante la discussione.

E io, con la mia emotività, le mie domande, la mia voglia di capire, ero semplicemente troppo.
Troppo stimolo, troppo specchio, troppo vicina al punto che cercava di nascondere.
E quando tocchi certi nervi, non ottieni dialogo. Ottieni detonazione.

Le discussioni, comunque, arrivavano. Nonostante i suoi “non voglio parlarne”.
A volte le innescava lui. A volte io. Altre volte, boh, era solo martedì.
Perché quando qualcosa sobbolle dentro, basta uno sguardo storto per far saltare il coperchio.
E no, non sempre si può decidere chi ha premuto il bottone.

Lui non era il tipo da abbracci senza motivo o regali inaspettati.
Era più da presenza gestionale: c’era, ma con la stessa intensità emotiva di un’email dell’INPS.

Io, invece, volevo qualcosa che assomigliasse almeno vagamente a un legame.
Un gesto che dicesse: sono qui perché lo scelgo”, non perché lo devo.

Ma più cercavo, più si ritraeva.
E non perché non provasse nulla. Ma perché provava troppo.
E quel troppo lo spaventava. O peggio: lo faceva reagire con rabbia.

Poi c’era quella frase. Quella che ancora oggi mi fa stringere la mandibola:
Ci sono lati di me che non mi piacciono. Cerco una persona che non me li faccia uscire.

Perfetto.
Quindi, idealmente, una fidanzata silenziosa, anestetizzata, inoffensiva.
Un antistimolo emotivo con la funzione di non far esplodere nulla.
Peccato che io non fossi un tranquillante da banco.
E che la vita, quando è vera, non possa proteggerti da te stesso.

Perché quelle parti che non sopporti, se non le affronti, ti useranno.
Si infilano in ogni crepa, in ogni parola detta male, in ogni tensione non gestita.
E a quel punto, non è la relazione a essere tossica. È la tua reazione che lo diventa.

Io, almeno, ho sempre cercato di fare il contrario.
Di guardarmi. Di capire perché mi sento in un certo modo, perché reagisco così, cosa mi scatta dentro.
Ho scavato. Ho sbagliato. Ho sistemato. Sto ancora sistemando.
Ma almeno, se qualcosa mi esplode dentro, non dò la colpa all’innesco. Mi prendo la responsabilità della dinamite.

Lui no.
Lui ha visto il riflesso, si è spaventato, e ha provato a distruggerlo.
Non perché io fossi un mostro.
Ma perché io vedevo.

E allora mi chiedo:
Capirà mai che la rabbia non è il problema, ma il modo in cui la ignori?
Che l’emotività non è un difetto, ma un indicatore?
Che se scappi da tutto ciò che ti smuove, finisci per desiderare relazioni anestetiche, sterili, facili da sopportare ma impossibili da vivere?

L’ultima volta mi ha detto:
Sai quanti come me troverai?
E io ho sorriso.
No, non ne troverò.
Perché ognuno di noi è irripetibile, nel bene e nel male.
E tu, che tanto temi le tue ombre, non hai ancora imparato a vedere nemmeno la tua luce.
E ti auguro, davvero, un giorno di riuscirci. Magari in silenzio, magari da solo.
Ma senza cercare altre capre da incolpare solo perché non riesci a fare il monaco zen.

Io, invece, continuerò a sporcare le mani.
A stare. A scavare. A farmi domande anche quando è scomodo.
Perché se devo scegliere tra una persona che mi fa sentire sempre tranquilla e una che mi costringe a guardarmi, scelgo la seconda.
Anche se mi mette in crisi.
Anche se mi ribalta.

Perché l’amore, quello vero, non ti protegge dalle tue parti peggiori.
Ti aiuta a farci pace.

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Mi mandava cuoricini. Poi ha fatto i bagagli

Se pensate che l’amore sia un film romantico, fermatevi qui. Qui si parla di tutto quel marasma di emozioni che ti fa chiedere: “Ma sono io o è lui che sta facendo un remake di Dottor Jekyll e Mister Hyde?” Benvenuti nel backstage di una relazione che, diciamocelo, è più caos che comfort.

Due ore prima mi mandava cuoricini. Due ore dopo faceva i bagagli.

Con rabbia, sì. Dopo una crisi vera. Di quelle in cui ti dici cose che fanno male e che ti rimbombano nelle orecchie anche mentre chiudi la porta. Nessun addio teatrale, nessuna telenovela. Solo quel gesto definitivo. Lui, che se ne va. Fine.

Io, come sempre, sono quella che legge. Che da sempre prova a capire come funzioniamo, come ci incasiniamo, come ci smarriamo. La mente mi è sempre sembrata un puzzle che voglio ricomporre. Leggo tanto. Per mestiere, per passione, per tentare di tenere insieme i pezzi.

Qualche giorno prima che lui se ne andasse, stavo leggendo “A tua insaputa”, un libro che esplora quanto le nostre scelte siano guidate dall’inconscio. C’era un passaggio che mi ha colpita. Parla della rabbia che proviamo mentre guidiamo: la prima volta che qualcuno ci taglia la strada, ci irritiamo. La seconda volta un po’ di più. Alla terza, cominciamo a scalpitare. Alla quarta si stringono i pugni. Alla quinta… si esplode.

Eppure, ognuno di loro ti ha fatto un torto solo una volta.

William James lo chiama “somma di stimoli”. Non reagiamo all’evento singolo, ma all’accumulo. È la ripetizione che ci logora. La memoria delle emozioni ci trasforma. Si accumula come polvere nei filtri. E alla fine, il sistema cede.

E allora forse io non ero la causa. Ero solo la quinta macchina.

Quella che ha beccato lo scoppio, lo sfogo, la saturazione. Magari per qualcosa che ho detto che gli risuonava in modo spropositato. Relazioni precedenti, rancori, fallimenti, aspettative bruciate. Io sono arrivata quando l’isola ecologica era già sommersa, e nessuno nel frattempo era passato a ripulirla.

E forse, questo, l’universo ha cercato di insegnarmelo. A modo suo. Brutale, ma efficace.

Perché sì, con me c’era insofferenza. Lo sentivo. Quella frase ricorrente: “questo non lo voglio, questo non fa per me”. Una lista infinita di no che sembrava più vecchia della nostra storia. Noi discutevamo, anche spesso. Ma ogni volta sembrava che le nostre liti si portassero dietro fantasmi che non erano miei. Non era impazienza verso di me. Era impazienza sedimentata, trasformata in cronica allergia al conflitto.

Diceva di avere pazienza, ma la pazienza non è solo non sbattere la porta. La pazienza non è restare mentre ti logori dentro. Non è dire “va bene” mentre in silenzio annoti tutto su una lavagna emotiva, finché un giorno ti svegli e decidi di cancellare tutto. Anche me.

Da fuori poteva sembrare uno sbalzo inspiegabile. Bipolare. Dottor Jekyll e Mister Hyde. Due ore prima amore. Due ore dopo dismissione. Ma quando conosci le dinamiche del trauma accumulato, della mente affaticata che non ha più margine di tolleranza, capisci che non c’è niente di misterioso.

Certo, non sono una santa. Anche io ho le mie puntate da Desperate Housewives, i miei drammi per un cassetto lasciato aperto, le mie arringhe da salotto mentre preparo la cena.

Ma ci provo. A non far pagare a chi ho accanto ciò che mi hanno lasciato altri.

Lui, forse, non lo sapeva. Forse non gliel’ha mai spiegato nessuno. Che se non svuoti l’isola ogni tanto, prima o poi esplodi. E a farne le spese sarà chi ti ama. Anche se ti manda solo un cuore. Anche se ti chiede solo di restare.

Io, nel frattempo, raccolgo. Le teorie, i segnali, i cocci. Li studio, li osservo, ci rifletto. Non perché io sia immune, ma perché almeno voglio sapere dove finisco io e dove iniziano le ombre che mi porto dietro.

Non so ancora cosa farne di tutto questo. Ma so che ogni tanto, a forza di studiare il traffico emotivo, qualcosa impari. Tipo che se qualcuno ti taglia la strada per l’ennesima volta, forse non serve esplodere. A volte puoi anche accostare, tirare giù il finestrino, e farti una risata.

O almeno provarci. Che l’universo, nel frattempo, continua a giocare a scacchi. Ma io, a volte, preferisco giocare a dama. Le regole sono più semplici. E si salta lo stesso.


Alla fine, la mia macchina metaforica si è beccata tutta quella rabbia, tutta quella somma di stimoli che non le spettava. Lei ha sobbalzato, ha strillato, ha pagato il prezzo di tutte quelle indisciplinate che gli avevano tagliato la strada prima di me.

Io, di verità in tasca, ne ho poche. Nessuna formula magica, nessuna spiegazione definitiva. Solo una certezza: per ora, per non sbagliare, mi sono comprata una macchina nuova, vera.

Perché se devo ripartire, voglio farlo con stile.

Da confidente a sconosciuta in 3 colazioni

Mi fidavo di lui come ci si fida del caffè al mattino: caldo, costante, necessario.
Mi raccontava tutto. Le sue paure, i sogni storti, i pensieri che si sussurrano solo a chi non ti tradirà.
E invece, nel giro di tre colazioni — una con un sorriso, una con silenzio, una da sola — mi sono svegliata straniera nella vita che avevamo costruito.
E lui?
Lui aveva già fatto check-out, lasciandomi un “buongiorno” fantasma e un vago senso di umiliazione servito tiepido”

C’erano i buongiorno del mattino.
Il caffè insieme, anche a letto. Il cuoricino che arrivava su WhatsApp a metà mattinata, quando ero in ufficio, tra una mail e l’altra.
Le telefonate per organizzare il pranzo, la spesa, la cena.
La domenica al mare, gli amici, le coccole sul divano, le notti che non finivano con un “buonanotte”, ma con un silenzio che diceva “resta qui”.
C’erano i pomeriggi a provare vestiti nei camerini, consigliandoci come se stessimo scegliendo insieme il prossimo pezzo della nostra vita.

E poi c’erano le passeggiate mano nella mano, i pensieri detti ad alta voce, le confessioni che non si fanno a nessuno, tranne a chi si ama e si crede resterà.

Le vacanze improvvisate, la moto che rombava libera sulla strada, la spensieratezza che sembrava eterna.
Una vita che ormai era tua… forse.

E poi c’erano anche i momenti no.
Le incomprensioni che graffiano un po’ la pelle, quelle discussioni che sembrano macchie scure su una tela luminosa.
Quella nota forse negativa, necessaria, che dà colore e profondità a ogni storia vera.
Non è mai tutto bianco o nero.
È un mosaico che si costruisce pezzo dopo pezzo, un modo diverso per imparare a integrarci, a conoscerci, a capire come stare insieme senza perdersi.

Lui si confidava con me.
Mi raccontava tutto.
Si apriva.
Avevo l’illusione di essere diventata la sua casa.
Non solo la donna, ma anche la custode dei suoi segreti.
E allora cominci a crederci davvero: che sia per sempre.
Che quel vestito quotidiano fatto di gesti, abitudini e complicità ti calzerà addosso per tutta la vita.
Come un abito su misura.

E poi, un giorno, te lo strappano via.
Non te lo sfili da sola, no.
Te lo levano di dosso con una calma spietata.
Da chi, invece di dirti che stai bene, ti lascia nuda.
Così, senza una spiegazione che sia degna del nome.

Non puoi scegliere.
Quando qualcuno decide per te, tu non hai margine.
Puoi solo restare lì, nella realtà nuova, quella che non hai chiesto, e raccogliere ciò che resta.
Brandelli.
Di te, della tua quotidianità, della versione di voi che solo tu sembravi ancora vedere.

Non raccontiamoci la favola della ferita antica che si riattiva.
Non è la “paura dell’abbandono” come dicono i manuali.
È l’abbandono. Punto.
È reale. È tuo. Ti toglie il fiato.
È svegliarsi e rendersi conto che chi c’era, non c’è più.
E che la tua esistenza, fino a ieri condivisa, è stata spazzata via come una cartolina dimenticata nella buca della posta.

Fa male.
Disilludersi fa male.
Dare un senso al nulla, fa male.
Guardare la persona che fino a un istante prima ti faceva vibrare, e scoprire che ora ti fa tremare, non per emozione, ma per gelo, fa malissimo.

E sì, l’ho supplicato.
L’ho fatto.
Con la disperazione di chi ha ancora qualcosa da perdere.
Come se la mia voce potesse sciogliere il ghiaccio, come se il mio dolore potesse riattivare il suo cuore.
Ma era già chiuso.
Serrato.
E dentro non c’era più nulla per me.

Non ci stai a farti colpire così.
Non puoi crederci.
Non puoi accettare che chi ti accarezzava fino al giorno prima ora ti ignora come se fossi polvere.

E allora mi chiedo:
avrò mai delle risposte?

No.
Perché le risposte richiedono verità.
E chi scappa senza dire niente, spesso, non le ha.
O non ha il coraggio di darle.

So solo che non voglio assomigliargli.
Non perché mi senta migliore.
Ma perché non voglio essere il tipo di persona che costruisce una casa in due…
e poi esce, chiude la porta a chiave, e lascia l’altro dentro a chiedersi che cavolo è successo.


Quando una relazione finisce, ma sei l’unica a cui non è stato comunicato, non perdi solo una persona. Perdi anche la realtà che avevi costruito giorno dopo giorno, come un vestito cucito su misura.
E ritrovarti nuda, in una vita che non riconosci più, è una delle forme più crudeli di abbandono


When a relationship ends, but you’re the only one left out of the loop, you don’t just lose a person.
You lose the reality you built day by day, like a tailor-made dress.
And finding yourself naked, in a life you no longer recognize, is one of the cruelest forms of abandonment

“Bridge, io e l’amore lasciato sul ponte”

Mi chiedevo: e se il problema non fosse l’amore, ma il fatto che la gente non sa proprio amare? Né un gatto, né un essere umano.
Adottano, salvano, ti chiamano “pasticcino”… finché non inizi a graffiare il divano.
Poi ti lasciano lì, sul ponte della loro immaturità, come un soprammobile che non si intona più al salotto.

A marzo, mentre percorrevo con quello che allora chiamavo “il mio compagno” un lungo ponte sopra un lago, l’ho visto. Un gattino nero, rannicchiato sotto il guardrail, minuscolo e spaesato come se fosse caduto lì per sbaglio — o peggio, per volontà di qualcuno.

«C’è un gatto» ho detto, con la voce strozzata da quel tipo di istinto che certe donne chiamano amore, ma che in realtà è solo un radar finemente sintonizzato sul dolore altrui.
Lui non ha esitato. Ha fatto inversione, siamo tornati indietro, lo abbiamo recuperato.
Il gattino tremava come se avesse appena scoperto che al mondo esistono gli esseri umani.

L’abbiamo portato con noi. Lui, il mio compagno, era un po’ titubante, ma in fondo anche lui voleva salvarlo.
E io lì, nel mio delirio romantico, ho pensato: ecco, vedi? Voglio un uomo così. Sensibile. Con il cuore che si muove.
Ero felice.

Il gattino aveva circa sei mesi, le unghie sistemate, il pelo lucido, nessuna pulce. Qualcuno lo aveva amato. Fino al momento esatto in cui ha deciso che non lo voleva più.
L’abbiamo chiamato Bridge. Perché c’è del simbolismo nei salvataggi: da una morte certa a una seconda possibilità. Dalle mani di qualcuno che ti ha scartato, a quelle di qualcuno che decide di restare. O almeno così credevo.

Io avevo già due gatti. Ma per me Bridge non era “uno di troppo”, era il numero perfetto.
Lui, l’uomo, non il gatto, diceva che era meglio trovare una soluzione, un’altra casa.
Ma poi… passavano i giorni. E se ne innamorava anche lui. O almeno così sembrava.

Quando lui mi ha lasciata, mi sono sentita come Bridge.
Qualcuno che ti aveva promesso amore… e poi ti lascia lì.
Così. Sul ciglio di una strada. Su un ponte. Con il lago sotto.

Il dettaglio più assurdo?
La sera prima, avevamo fatto l’amore, come sempre, come ogni giorno.
Con la solita dolcezza, la stessa familiarità, le stesse mani che sanno dove andare quando ormai si conosce il corpo dell’altro come una seconda pelle.
Mi aveva guardata come sempre. Mi aveva detto le solite cose che si dicono quando si ama, o si finge bene.
E poi, il giorno dopo, mi ha lasciata.
Così. Come si chiude una finestra prima di un temporale.

Ho immaginato spesso chi aveva adottato Bridge prima di noi. Avrà comprato la ciotolina carina, la cuccia fluffosa, il collare con il nome. Tutto quel meraviglioso arsenale da pet-parent che scatta nei primi dieci minuti di entusiasmo compulsivo.

Ma l’entusiasmo, si sa, ha la scadenza di uno yogurt dimenticato in frigo.

Bridge era diventato reale. Graffiava, saltava sui mobili, rubava la pancetta. E no. Questo non era previsto nel copione.
Non era più lui. Era diventato sé stesso.
Ed è lì che è crollato l’incantesimo.

Perché l’amore va bene… finché resta nella cornice. Quando esce, quando sporca, quando morde, diventa un problema da risolvere.
Allora si molla tutto. E si molla l’altro.

Così si finisce per odiare ciò che prima si adorava.
Non perché sia cambiato. Ma perché ha osato esistere oltre la fantasia.
E ti rendi conto che non era amore. Era solo l’ennesimo tentativo disperato di decorare la tua solitudine.

Gli ho detto che mi sentivo come Bridge.
Lui ha protestato: “Il paragone non regge, io non sono come chi ha abbandonato Bridge.”

Ah no?
E allora tutti quei caschi nel tuo garage, quelli acquistati subito per me, e quelli rimasti lì delle “altre”?
La mia bici? Quella acquistata per me, per pedalare insieme sul lungomare?

Caschi, bici, oggetti: il merchandising dell’amore usa e getta.
Tutte quelle cose non erano per noi. Erano per lui. Rimaste lì, nel suo garage!
Un collage emozionale fatto di persone che dovevano solo entrare nella sua scenografia, senza mai spostare un mobile.

Come Bridge, io avevo una mia vitalità. Un mio modo di fare. Coccolosa, sì. Ma anche con artigli.
E i nomignoli adorabili — “pasticcino, patata, bruschetta” — sono diventati stretti, come quei vestiti che smettono di piacerti appena la realtà prende forma.

Quando non ero più perfetta, sono diventata scomoda.
Quando ho iniziato a miagolare fuori copione, sono diventata troppo.
E allora, via. Sul ponte. Dove si lasciano le cose che non stanno più bene nel soggiorno dell’anima.

Ma vedi, caro ex mio, io lo so bene: quando compri una cuccia pensando che basti quello per creare amore, non è amore. È arredamento.

E oggi, mentre guardo Bridge che mi guarda, sento che siamo una gran bella squadra.
Niente più cuccette infiocchettate. Niente illusioni di amori eterni impacchettati come regali. Niente illusioni di eternità. Solo una semplice, sacrosanta verità: non mi abbandonerò più.

Perché l’abbandono peggiore non è quando se ne vanno gli altri.
È quando cominci tu a dubitare del tuo valore solo perché qualcun altro ha lasciato il guinzaglio per strada.

Forse lui non poteva farcela. O forse aveva il cuore impastato di ex storie che gli hanno asciugato il coraggio.
O magari ha solo smesso di credere nell’amore e ha iniziato a collezionarne versioni convenienti.
Non importa.

Io non so se amerò ancora come prima. Ma so che la prossima volta non salirò sul ponte con nessuno che non sappia davvero dove sta andando.

E sì, può anche darsi che prima di abbandonare Bridge qualcuno l’abbia accarezzato e gli abbia detto:
“Perdonami, non ce la faccio.”
Ma su un ponte? Con il lago sotto?
No, caro. Non ti posso perdonare.
Neanche per un peluche. Figurati per una vita.


Forse l’amore non è un peluche da coccolare finché non graffia. Forse è un essere vivente, umano o felino, che chiede solo una cosa: non essere lasciato sul ponte al primo graffio.
Perché alla fine, non è l’amore che fa paura. È la gente che si presenta come un rifugio… e poi si rivela una porta che si chiude quando hai più bisogno di entrare


“Maybe love isn’t a plush toy to cuddle until it scratches. Maybe it’s a living being, human or feline, asking for just one thing: not to be left on the bridge at the first scratch. Because in the end, it’s not love we’re afraid of. It’s people who show up like a shelter… and turn out to be a door that slams shut just when you need to walk in most”