Quattro euro e una briochina: istruzioni per essere libere

Libertà. Una parola grande, ma a volte basta una briochina e quattro euro per sentirla vicina.

Oggi ho incontrato una donna che per la burocrazia resta una mia utente, ma per la vita è diventata un’amica. Stavamo parlando delle sue solite fatiche e, puntuale come una tassa, è arrivato il tema dei soldi.

Per lei il denaro è una sorta di meteorologia emotiva: “Quando tornerò a lavorare non avrò più problemi. Non salterò più una bolletta. Non vivrò più con questa paura di non farcela.”

È un pensiero che capisco, ma che conosco benissimo: l’idea che la libertà arriverà quando la vita fuori sarà finalmente in ordine.

Un piccolo inganno della psiche, raffinato quanto inutile.

Per sdrammatizzare, e forse anche per farle vedere la crepa nel ragionamento, le ho raccontato la mia:

“Guarda che i problemi non scadono quando arriva la busta paga. Questo mese ho sbagliato i conti… e mi sono ritrovata con quattro euro sul conto. Quattro. Non quaranta, quattro! Stasera la mia cena è una briochina.”

Una di quelle briochine che, quando la scarti, ti chiedi se sia lei ad essere piccola o sei tu ad avere troppe aspettative.

Non lo racconto per fare tragedie gastronomiche, né per fare filosofia col portafoglio.

Anzi, il contrario: era per farle capire che anche quando sei libera, la vita non smette di essere imperfetta.

La differenza è che non dipendi più dal fuori per respirare.

È quella libertà sottile: sapere che te la cavi comunque, che il mondo non ti crolla addosso se il conto è leggero, che non serve aspettare che tutto sia perfetto per fare il primo passo.

Perché, alla fine, non era una conversazione sui soldi. Era una conversazione sulle scuse. Sulle microscopiche barriere che costruiamo per non muoverci: “Non lavoro”, “Non sono autonoma”, “Non posso finché non ho abbastanza”, “Non ce la faccio”.

Piccoli altari su cui sacrifichiamo la possibilità del cambiamento. E lo capisco, perché tutte, prima o poi, ci siamo sedute lì: in quel limbo familiare, fatto di paure travestite da logica, di comodità travestite da impossibilità.

Il punto è smettere di aspettare il momento ideale e riconoscere che possiamo fare oggi ciò che vogliamo davvero fare. Quel primo passo minuscolo, ridicolo, che però sposta l’asse interno più di qualsiasi miracolo esterno.

Abbiamo riso, molto. Ho tirato fuori il sacchetto con la mia briochina, ci siamo guardate con gli occhi lucidi dalle risate.

Poi le ho chiesto:

“Qual è la cosa che desideri davvero per te stessa?”

Ci ha messo un attimo a rispondere:

“La libertà.”

Ecco. Lì c’è tutto.

La libertà non arriva quando avrai abbastanza. Arriva quando smetti di raccontarti che senza quel ‘abbastanza’ non puoi cominciare.

Lei questo movimento lo sta facendo, piano, come succede quando la verità arriva bussando invece che sfondando la porta. E forse la sua libertà inizia proprio così: da un piccolo scarto interno, quasi impercettibile, ma decisivo. Da quell’istante in cui ti accorgi che la scelta può iniziare oggi, anche con quattro euro, anche con una briochina, anche con un filo di paura.

E che non c’è nulla di meno libero che aspettare di non averne più.


La libertà non arriva quando tutto è perfetto. Non arriva quando i conti tornano, quando le scuse finiscono o quando il mondo sembra finalmente allineato… pianeti, costellazioni, unicorni e tutto il resto. Arriva quando smetti di raccontarti storie e decidi di fare quel piccolo passo, anche se fa paura. Arriva quando capisci che l’unica persona di cui puoi davvero fidarti sei tu… e che aspettare il momento perfetto è solo un modo elegante per restare ferma a guardare il cielo sperando che gli astri si mettano d’accordo.

Arriva quando smetti di aspettare e decidi che oggi, imperfetta, ridicola o disastrosa che sia, sei tu a guidare lo spettacolo.

Empowerment (versione sopravvissuta)

Se la vita fosse una serie TV, negli ultimi mesi avrei preteso di parlare col produttore: troppe trame assurde, zero coerenza narrativa e un accanimento quasi sospetto verso il personaggio principale, cioè me.
Eppure eccomi qui, senza effetti speciali né colpi di scena salvifici, solo con una verità semplice e un po’ cinica: a volte sopravvivere è già una forma avanzata di crescita personale.

Negli ultimi mesi la vita ha deciso di mettermi alla prova con lo stesso entusiasmo con cui l’universo lancia meteoriti sui dinosauri.
Prima un amore travestito da pecora (che pecora non era affatto).
Poi la macchina rotta.
Poi la macchina nuova rotta.
Poi i social hackerati.

Proprio mentre cercavo di restituire al mondo un pezzo della mia voce, qualcuno ha deciso di spegnerla di nuovo.

Silenzio. Buio. Reset.

Anni fa avrei reagito come facevo sempre: distruggendomi, ferendomi, trasformando la rabbia in armi rivolte contro me stessa.
Ma stavolta no.

Stavolta ho fatto qualcosa che per molti sembra piccolo, ma per me è stato titanico:
ho lasciato che il dolore mi attraversasse senza distruggermi.

Ci ho messo coraggio.
Ci ho messo resilienza.
Ci ho messo anche un po’ di sano cinismo, perché a un certo punto, se non ci ridi sopra, ti sciogli come una cialda nel cappuccino.

La verità è che ho un passato che non fa sconti: disturbi alimentari, un tumore, una separazione, e una vita che ho ricominciato a ricostruire con le mani che tremavano.

Poi è arrivata una relazione che ha cercato di buttarmi giù di nuovo.
E ci è quasi riuscita.

Quasi.

Perché c’è stata una cosa che non ho concesso:
non ho permesso alla rabbia di comandare la mia storia.

Non l’ho lanciata addosso a nessuno.
Non l’ho diretta contro di me.

L’ho lasciata lì, come un animale selvatico che osservi da lontano finché capisci che non è lì per sbranarti, ma per avvisarti che devi cambiare strada.

E allora ho scritto.
Ho scritto per non sparire.
Ho scritto per restare intera.
Ho scritto per trasformare quella rabbia in qualcosa che non fosse più veleno, ma carburante.

L’hackeraggio ha cercato di fermare tutto questo.

Ha provato a farmi tacere proprio quando stavo trovando la mia voce più sincera.
Ma eccomi qui.
Nonostante tutto.
Grazie a tutto.

Ed è qui che arriva la parola di oggi: empowerment.
Che non è una foto perfetta su Instagram, non è un mantra da palestra, non è l’idea che “se vuoi puoi”.

Per me empowerment è molto meno glamour e molto più vero:

È rialzarsi anche quando non hai nessuno che ti applaude.
È continuare a parlare quando qualcuno ti silenzia.
È ricominciare da zero, anche quando non hai scelto tu di perdere tutto.
È restare fedele a te stessa dopo che il mondo ti ha fatto a pezzi.

È capire che la porta non è chiusa:
è solo pesante.

E tu hai ancora la forza per spingerla.

E quando si apre anche solo di un centimetro,
quello è empowerment.
Non un fascio di luce perfetto,
ma la scelta di non richiuderla.

Perché, diciamolo, la vita non suona mai la fanfara quando rialzi la testa.
Non ti manda un mazzo di rose.
Al massimo ti manda un’altra scocciatura, giusto per controllare se sei davvero pronta.
E tu, con il mascara mezzo colato e la dignità rimessa insieme con lo scotch, vai avanti lo stesso.

Quello è empowerment.

È guardarti allo specchio dopo l’ennesima tempesta e pensare:


“Okay, Universo, non so se volevi distruggermi o rendermi più brillante, ma ti informo che mi hai solo resa più ostinata.”

È aprire quella maledetta porta pesante e renderti conto che sì, cigola, fa resistenza, ti lascia pure un livido…
ma si apre.

E alla fine capisci che non serviva un sole grande.
Bastava uno spiraglio.
Bastavi tu.


“Se oggi ti sembra tutto troppo, ricordati che anch’io mi sono rimessa insieme. A colla e ironia. Funziona.”

Elena M

La favola intera

Cronache di una donna che ha smesso di aspettare il lieto fine e ha iniziato a cucinarlo

C’è un momento, di solito attorno alle tre di notte, quando la città assomiglia a un enorme respiro e tu non riesci a fare il tuo, in cui ti chiedi perché ci incasiniamo così tanto per amore. Non per l’Amore da manuale, quello sano e centrato, ma per quell’amore da giostra emotiva, quello che ti fa credere che l’altro sia il pezzo mancante del tuo puzzle, l’incastro perfetto destinato a completarti.

Siamo stati educati così: alla mitologia della “metà giusta”, dell’anima gemella, del se solo trovassi quella persona lì allora sì che….
E invece no: la realtà arriva e ci mostra pezzi che non entrano, bordi che non combaciano, incastri che sembrano sempre un po’ storti. E noi, come brave apprendiste della favola romantica, ci chiediamo se siamo difettose.

Per noi donne, poi, il copione è ancora più surreale: emancipate ma sempre disponibili, forti ma per niente spigolose, sensuali ma non troppo, brillanti ma non invadenti. La società ci vuole come certe vetrine: perfette, luminose, ordinate… e sempre aperte.

E sullo sfondo, eccole:
le favole.
Principesse che aspettano, cavalieri che salvano, donne fragili che vengono riscattate dal gesto eroico di un altro. Favole che, senza cattiveria, ci hanno educato al bisogno di una mano esterna che ci sollevi, ci redima, ci definisca.

Fino a quando, una notte, o un pomeriggio qualunque, a dire il vero, ti arriva una piccola illuminazione: forse non è l’altro che deve salvarti.
Forse quella mano che aspetti può essere la tua.
Forse dentro di te vivono già la principessa, il cavaliere, la parte che cade e quella che rialza.

Ed è lì che ti viene un’idea un po’ folle, un po’ liberatoria:

vi invito a mangiarle, le favole.
Sì, proprio così.
Mangiatene, fatele vostre, masticatele bene.
E poi digeritele lentamente, con tutto il tempo che serve.

Perché solo quando le digeriamo possiamo trasformarle. Possiamo smettere di interpretare un ruolo e iniziare a scrivere il copione. Possiamo diventare non la metà, non la parte “buona”, non la protagonista passiva… ma la favola intera.

Essere la favola intera significa accettare che dentro di noi convivono parti diverse: la fragile e la forte, la luminosa e la ombrosa, quella che vuole scappare e quella che vuole restare. Significa permettere a queste parti di parlarsi, ascoltarsi, incontrarsi, invece di eleggere una sola come quella “giusta”.

È un lavoro buffo, poetico, potentissimo: scoprire che a volte una parte di te piange e un’altra la consola; una teme e l’altra osa; una cade e un’altra la solleva.
E in quell’incontro, così domestico, così intimo, succede la magia.

Succede che smetti di aspettare qualcuno che ti completi.
Succede che non hai più bisogno di un cavaliere che ti sollevi dal pantano emotivo.
Succede che puoi guardare l’altro non per ciò che ti manca, ma per ciò che puoi condividere.

Perché quando sei la favola intera, non cerchi chi ti salva: cerchi chi ti accompagna.
Non cerchi chi ti completa: cerchi chi ti vede.
E soprattutto, smetti di stare con qualcuno per paura di cadere: ci stai perché insieme si cresce, non perché soli si muore.

Mangiate le favole.
Masticatele.
Digeritele finché non ne sarete nutrite, non schiave.

E quando avrete fatto vostro ogni pezzo, quando avrete trasformato la storia… sarà allora che scoprirete di non essere più una principessa in attesa né un cavaliere in affanno.
Sarete voi, tutte voi, dalla prima pagina all’ultima.

La favola intera.


Alla fine l’unica cosa davvero utile da fare con le favole è mangiarle. Masticale, digeriscile, e lascia che ti nutrano.
Perché l’incastro perfetto non esiste. Chi lo cerca vuole solo un oggetto docile, non una persona intera.

Quando smetti di aspettare chi ti completa, inizi a vedere chi ti rispecchia.
E scopri che l’amore più potente non è quello che ti salva, ma quello che ti permette di stare intera anche quando sei fatta a pezzi.

Tutte le tue parti, quella ferita, quella arrabbiata, quella coraggiosa, devono poter stare insieme. Solo così puoi diventare la tua favola intera, senza chiedere il permesso a nessuno.

Elena M

Porta chiusa? Sto già dalla finestra

Quando il percorso principale è bloccato, inventane uno laterale!

Negli ultimi anni ho vissuto cose che non avevo previsto, che non avevo scelto e che mi hanno lasciata senza fiato. Ho affrontato una relazione che mi ha spezzata nel profondo, una violenza che ha fatto crollare tutte le certezze che credevo di avere. Da quel dolore, però, è nato qualcosa di inaspettato: la mia voce. Una voce che credevo perduta e che invece ha iniziato a farsi sentire proprio quando tutto sembrava finire. Così è nato il mio blog: un luogo sicuro, autentico, mio. E quando finalmente ho avuto il coraggio di condividere quegli articoli, di esporre la mia verità… tutto è stato oscurato di nuovo. Un hackeraggio improvviso, assurdo, come una mano che cercava ancora una volta di zittirmi.

E per un po’, lo ammetto, quella mano ci era riuscita.

A volte la vita ti mette davanti a ostacoli che non avevi chiesto, cadute che non avevi previsto e silenzi in cui nessuno dovrebbe mai ritrovarsi. Io li ho attraversati tutti. Ma oggi, mentre tenevo in mano il mio nuovo telefono, ancora sigillato, ancora pieno di possibilità, ho sentito qualcosa che non provavo da mesi: entusiasmo.

Non un entusiasmo qualunque. Quello che ti vibra nelle ossa. Quello che ti dice: “Ok, è successo tutto questo… e allora? Guarda dove sei ora.” Nei mesi passati ho visto la mia voce spegnersi e riaccendersi, il mio spazio online prima diventare casa e poi scomparire nel nulla, come se qualcuno avesse deciso di premere “mute” proprio quando stavo iniziando a parlare davvero. E sì, per un po’ ci sono cascata: mi sono sentita sconfitta, stanca, fuori combattimento.

Poi, ieri, click.
Non so dire esattamente cosa sia scattato. Forse ero esausta dalla frustrazione. Forse era semplicemente ora. Ma all’improvviso ho capito che stavo combattendo con l’energia sbagliata, bussando sempre alla stessa porta come una donna ostinata sotto la pioggia che continua a citofonare nel posto sbagliato. E se il palazzo ha cento porte?
E se il trucco non è aspettare che ti aprano, ma girare l’angolo e scoprire un ingresso laterale che non avevi visto?

Così oggi mi sono svegliata diversa.
Con una consapevolezza nuova: io non voglio solo riconquistare ciò che era mio.
Io voglio evolvermi.
Tornare dentro, sì… ma come la versione migliore di me stessa.

E quel telefono nuovo?
Non è un acquisto. È una dichiarazione d’intenti.
È il mio “sto tornando”, senza scuse, senza paura, senza bisogno di permesso. Ho deciso che non importa quante volte qualcuno proverà a spegnere la mia voce.
Io, quella voce, la alzerò.
La amplificherò.
La renderò impossibile da ignorare.

Oggi ricomincio.
Con leggerezza.
Con lucidità.
E con una forza che, sinceramente, non pensavo di avere.

E se c’è una cosa che ho imparato è questa:
quando il mondo ti chiude una porta… prova a bussare a quella accanto.
Magari è proprio lì che ti aspetta la versione più potente di te stessa.

Il silenzio non distrugge, prepara

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Ci sono notti in cui sembra che l’universo ti stia zittendo di nuovo.
Notti in cui la vita si ripresenta con lo stesso ghigno di quella violenza che credevi di aver lasciato indietro, e ti toglie ancora una volta la voce.
Ti toglie la luce.
Ti toglie la speranza di aver finalmente imparato a respirare.

Ho iniziato a scrivere questo blog come si inizia una cura.
Non con la pretesa di guarire, ma con la necessità disperata di non morire dentro.
Scrivere è stato il mio modo di gridare quando nessuno ascoltava, di mettere ordine tra le macerie, di dare forma a quel silenzio che troppo spesso viene imposto alle donne, con le mani, con la paura, con la vergogna, con l’indifferenza.

Ho vissuto una relazione tossica, e la parola “tossica” non basta a contenerne la portata.
C’è stato un gesto violento.
C’è stato un abbandono in una notte calda d’estate, in mezzo a una strada, come se fossi diventata un rifiuto.

Eppure, il dolore di chi ama e riceve in cambio il male non ha nome.
Ti trapassa le ossa.
Ti brucia l’anima.
Ti scava dentro fino a non lasciarti più distinguere dove finisce la colpa e dove inizia la sopravvivenza.

Scrivere è stato il mio modo di rimettere insieme i pezzi di quell’anima frantumata.
Un viaggio dentro l’inconscio, come direbbe Jung: lì dove vivono le ombre, ma anche la possibilità di trasformarle in luce.
Perché la guarigione non è dimenticare, è integrare.
È accettare che anche il dolore, l’orrore, la paura, facciano parte della nostra storia.
È sedersi accanto al proprio dolore e dirgli: “Ti vedo. Ma non mi definisci più.”

Così questo blog è diventato una cura, per me e forse anche per chi mi leggeva.
Una piccola costellazione di anime che, nel buio, riconoscevano la stessa ferita e la stessa forza.
Uno specchio in cui finalmente ci si guarda negli occhi e si può dire a se stessi:
“Non è colpa mia.”

Ma il male ha molti volti, e a volte indossa una maschera digitale.
Tutti i miei canali social, le mie parole, la mia voce, sono stati hackerati.
Scomparsi sotto i miei occhi.
Un furto che non è solo informatico: è simbolico.
È la ripetizione di un gesto antico, il tentativo di mettere di nuovo una mano sulla bocca di una donna che osa parlare.

E allora mi chiedo: forse, nel 2025, non siamo ancora pronti ad ascoltare davvero la voce delle donne.
Forse la verità delle nostre ferite è ancora troppo luminosa per chi vive di ombre.
Forse la forza di chi si rialza, di chi trasforma il dolore in parola, in arte, in cura, è ancora troppo scomoda per un mondo che preferisce le donne silenziose, decenti, docili.

Sì, troppo scomoda.
Perché una donna che ritrova la propria voce è una rivoluzione.
È la prova vivente che il controllo è un’illusione, che la paura non vince, che il male non ha l’ultima parola.
È la Fenice che brucia tutto, anche le gabbie mentali e culturali, e dalle sue ceneri genera nuova vita.
E il mondo, forse, non è ancora pronto a reggere tanto splendore.

Questa notte sento di nuovo quella mano invisibile sulla bocca.
Quella che ti sussurra “stai zitta”, quella che ti fa dubitare del tuo valore, quella che ti fa sentire di nuovo sola, in quella stessa strada buia di quattro mesi fa.
Ma c’è una differenza, stanotte.
Adesso so che il silenzio non mi distrugge: mi prepara.
Mi costringe a tornare dentro, a riaccendere il fuoco, a ricordare chi sono.

E allora, tra le lacrime che ancora scendono, mi dico:
“Supererai anche questo.”
E lo so, perché l’ho già fatto.
Perché la mia voce, anche se spenta fuori, dentro continua a cantare.
Perché ogni volta che qualcuno prova a spegnerla, diventa più forte.

E sì, sono arrabbiata.
Ma questa rabbia è sacra.
È l’energia primordiale di chi rifiuta di essere vittima, di chi trasforma la ferita in conoscenza, la caduta in forza.
È la mia Anima che torna a parlarmi, e io la ascolto.
Non la lascerò mai più zittire.

Perché la verità è questa:
Puoi hackerare i miei profili, ma non la mia voce.
Puoi cancellare i miei post, ma non la mia storia.
Puoi provare a spegnere la mia luce, ma non la mia fiamma.

E allora scrivo.
Scrivo ancora.
Scrivo per me, per le donne che non riescono ancora a farlo, per quelle che stanno cercando il coraggio di dire “basta”.
Scrivo perché tra le parole ritrovo la mia voce, e con lei la forza di sentirmi viva.
E mentre scrivo, sento di nuovo il cuore battere.

E capisco che sì, sarò voce. Anche stavolta.


Il male esiste, e a volte sembra onnipotente.
Prova a spegnere la voce, a piegare la volontà, a lasciare solo paura e ombre.
Ma chi lo affronta, chi lo osserva negli occhi senza farsi definire da esso, scopre che il male può diventare testimonianza, conoscenza, energia per resistere.
Non è consolazione, non è giustizia: è la consapevolezza che, anche quando il male colpisce, c’è chi rifiuta di lasciarsi cancellare, chi trova dentro sé stesso la forza per continuare, per proteggere ciò che resta, per non consegnarsi al suo dominio.

E io ve lo dico, dal mio piccolo spazio nel mondo: con tutto quello che ho, con ogni parola che riesco a scrivere, vi mando un pezzo di cuore. Perché, alla fine, sopravvivere significa anche questo, continuare a sentirsi vivi, insieme, un passo alla volta.

Con affetto

Elena

Mi hanno silenziata, ma non mi hanno fermata

Quando la libertà di raccontare diventa una forma di resistenza

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C’è un momento, dopo anni di dolore, in cui ricominci a respirare. Non come prima, perché dopo certi amori non si torna più uguali, ma abbastanza da sentire che qualcosa dentro di te si è rimesso in moto. È quel momento fragile e prezioso in cui cominci a rivedere la luce in fondo al tunnel, quando capisci che la sopravvivenza non è più l’unico obiettivo, ma l’inizio di una nuova vita. E proprio lì, quando stavo finalmente imparando a camminare di nuovo, è arrivato il silenzio.

Un silenzio imposto, digitale ma profondo.
Un giorno i miei profili social, quelli dove condividevo i miei articoli, le mie riflessioni e le mie cicatrici trasformate in parole, sono scomparsi. Disattivati. Cancellati. Spariti nel nulla, come se non fossero mai esistiti. Nessuna spiegazione, nessuna mail, nessun preavviso. Solo quel vuoto familiare che conosce bene chi ha già sperimentato la manipolazione: la sensazione di essere di nuovo cancellata, questa volta non da un uomo, ma da un sistema.

Forse è stato un caso. O forse no. Forse, ancora una volta, qualcuno ha deciso che la mia voce dava fastidio. Che i miei racconti erano troppo veri, troppo scomodi, troppo simili a una confessione che qualcuno non voleva leggere. Forse è stato proprio lui, quello che ha ispirato tante delle mie parole, quello che ha reso il mio amore un campo di battaglia, a premere metaforicamente il tasto “silenzia”.

Non ho mai fatto nomi. Non ho mai puntato il dito. Mi sono limitata a raccontare me stessa, la mia esperienza, le ferite e la lenta rinascita di una donna che aveva creduto nell’amore sbagliato. Ma in un mondo dove tutto deve restare patinato e muto, la verità è rivoluzionaria. E le rivoluzioni fanno paura.

Scrivere, per me, non è mai stato solo un atto creativo. È stata la mia terapia, la mia ribellione, la mia salvezza. Ho scritto per sopravvivere, per non dimenticare, per dare un nome a quel dolore invisibile che nessuno vedeva. Ho scritto per ricomporre i pezzi di me che lui aveva sparpagliato, e per trasformare la rabbia in consapevolezza.

E poi, improvvisamente, qualcuno ha cercato di spegnere la mia voce.
Ma se c’è una cosa che la violenza insegna, è che il silenzio non guarisce.
Il silenzio uccide.

Siamo nel 2025, e ancora oggi una donna che parla di violenza, di manipolazione o di abusi emotivi viene vista come una minaccia. Si dubita di lei, si minimizza, si ride, si cambia discorso. Ma non si ascolta. Si preferisce zittirla piuttosto che guardare in faccia la realtà: che la violenza non è solo un pugno, ma anche una parola, un silenzio, un controllo, una cancellazione.

Il mio blog, artediamarsimale.blog, non è un diario di vendetta, ma un laboratorio di guarigione. Un luogo dove il dolore si trasforma in arte, dove la vulnerabilità diventa forza, e dove l’ironia serve a respirare tra una verità e l’altra. Scrivo con il cinismo dolce di chi ha amato troppo e ha imparato a ridere anche delle proprie ferite. Scrivo perché credo che il racconto possa salvare: me e chi legge.

Quando ho visto i miei profili sparire, ho sentito la stessa impotenza di quando lui decideva di ignorarmi, di farmi dubitare di me stessa, di farmi sentire invisibile. Ma poi ho ricordato una cosa: che questa volta non ho bisogno del suo consenso. Né del consenso di chi non vuole sentire.

Perché il mio spazio, le mie parole e la mia verità non possono essere eliminate con un clic.
Possono chiudermi gli account, ma non possono fermare la mia rinascita.
Possono tentare di cancellare la mia voce, ma non il messaggio che porto dentro.

Scrivere di dolore è un atto di coraggio. Pubblicarlo è un atto politico.
E in un mondo dove la verità femminile è ancora disturbante, continuare a scrivere è la mia forma di resistenza più radicale.

A chi ha provato a zittirmi, rispondo con la calma feroce di chi ha smesso di avere paura: io continuerò a parlare. Per me, per le altre, per chi non ha ancora trovato le parole.

Perché ogni volta che una donna racconta la sua ferita, guarisce un pezzo di mondo.
E anche se mi hanno silenziata, non mi hanno fermata.
Anzi, mi hanno dato un motivo in più per continuare.

A tutte le donne che stanno leggendo queste righe, voglio dire una cosa semplice: non lasciate che vi zittiscano.
Non importa chi prova a farlo: un uomo, un sistema, o una piattaforma che preferisce l’apparenza alla verità.
Ogni volta che scegliete di parlare, di raccontare, di denunciare anche solo con un post, un disegno, una frase, state costruendo un ponte verso la libertà.

Non serve essere eroine, serve solo essere vere.
E la verità, quando è detta con il cuore, è la forma più potente di rivoluzione.

Io continuerò a scrivere, e continuerò a pretendere che Meta risponda di quello che è accaduto. Perché lasciare che un hacker, o chiunque altro, possa mettere a tacere una voce femminile significa dare la vittoria a tutto ciò che vogliamo combattere: la violenza, l’abuso, la paura.

Se una donna non può più raccontare la propria storia senza essere censurata, allora abbiamo fallito come società.

Ma io non ci sto.
Ho smesso di farlo il giorno in cui ho capito che tacere non mi avrebbe mai salvata.

Continuerò a parlare, anche se la mia voce dovesse essere solo un sussurro tra mille urla digitali. Perché certe verità non hanno bisogno di megafoni: basta dirle, e già cambiano l’aria.

E a tutte le donne che mi leggono, quelle che hanno amato male, creduto troppo, o semplicemente dato tutto a chi non sapeva cosa farsene, voglio dire questo: non smettete di parlare.
Scrivete, raccontate, urlate o ridete di tutto quel dolore finché non smette di farvi paura.

Perché il silenzio è l’arma di chi teme la verità.
E la parola, beh… la parola è la nostra libertà più grande.

Come nascono le Regine

Ci sono momenti nella vita che ti strappano il respiro. Momenti in cui scopri che chi diceva di amarti può ferirti più profondamente di chiunque altro. Momenti in cui il cuore si frantuma in silenzio, e ogni lacrima sembra dissolversi nel nulla. Questa è la storia di un dolore che spezza, e di come da quelle crepe sia possibile nascere più forti. Questa è la storia di come, dalle ceneri di chi eri, può nascere una Regina.

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Ci sono estati in cui torni abbronzata, con la pelle dorata e il sorriso rilassato delle riviste patinate.
E poi ci sono estati come la mia, in cui torni pallida, gonfia di lacrime e con il cuore ridotto in macerie.

Ho passato le mie ferie estive a contorcermi nel letto, prigioniera di un dolore che non dà tregua. Non il dolore di una caduta, non quello di una febbre alta: il dolore inflitto da chi diceva di amarmi. L’uomo che si definiva il mio compagno mi ha riservato il peggior trattamento che una mente innamorata possa concepire: abbandono e indifferenza assoluta.

Se n’è andato in una calda notte d’estate, insensibile alle mie lacrime e alla mia disperazione. Nei giorni successivi, il silenzio: nessuna telefonata, nessun messaggio, neppure un “come stai?”. L’indifferenza vera ti fa a pezzi più delle urla; gela il sangue più delle cattiverie dette a caldo. Con la stessa freddezza con cui si abbandona un cane in autostrada, senza la minima traccia di rimorso.

Così ho conosciuto un dolore che non si descrive: si sopravvive. Una valanga che travolge, schiaccia, frantuma. Ho sentito le viscere strapparsi, la testa esplodere in un colpo secco, il respiro mancare. Solo Dio sa quante lacrime ho versato e quante volte ho creduto di non rialzarmi.

Eppure, qualcosa si è spezzato. E insieme a quella rottura, qualcosa è nato.

Per tutta la vita ho avuto la sindrome della crocerossina: empatica, indulgente, pronta a giustificare chiunque. “Lui è così perché il padre aveva tratti istrionici… lui è così perché la madre non era accogliente… lui è così perché i genitori lo hanno abbandonato troppo presto”. Un elenco infinito di attenuanti che nella mia testa suonavano come scuse. Ho giustificato tradimenti, freddezze, abbandoni. Io, con il bicchiere sempre mezzo pieno, pronta a vedere il lato positivo anche mentre mi caricavo addosso i dolori non miei.

Oggi so che era una colossale stronzata.

Le persone scelgono chi vogliono essere. E se scegli di ferire, hai scelto di essere qualcuno che ferisce. Punto.

Non c’è psicoanalisi che tenga, non c’è “non sono stato amato abbastanza” che assolve chi ti calpesta. La responsabilità di amarsi, di amare e di non distruggere gli altri è personale.

Io, invece, sceglievo male. Mi innamoravo di cuori agonizzanti nascosti dentro ego smisurati, convinta che il mio amore potesse salvarli. Non era amore: era una trappola.

Poi, due notti fa, Elena è morta.

Ho celebrato il suo funerale in silenzio. L’ho ringraziata per la dedizione con cui ha amato, per la sua ingenuità luminosa, per la sua ostinazione nel credere ancora nel bene. L’ho abbracciata un’ultima volta e l’ho lasciata andare.

Dalle sue ceneri è nata una Regina.

Una Regina, una donna che ha imparato a difendere se stessa e il proprio cuore.

Le Regine non si accontentano delle briciole. Difendono confini, tempo, corpo, parola. Custodiscono la loro energia come fosse oro e non la sprecano per chi non sa cosa farsene. Tendono la mano solo a chi chiede aiuto davvero e conosce il rispetto; non hanno pietà per i furbi, per i vigliacchi, per chi rifiuta di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Non sono crocerossine in cerca di casi umani, né vittime sacrificali di un amore tossico.

Eppure, proprio perché hanno conosciuto il dolore, possiedono una capacità di amore smisurata. Un amore che non si piega alla disperazione, che non mendica, che non elemosina attenzioni. Le Regine sanno essere misericordiose: sanno perdonare chi si avvicina con umiltà, accogliere chi desidera crescere, donare calore a chi ha il coraggio di chiedere. La loro grandezza non sta solo nella forza con cui tengono lontani gli impostori, ma nell’immensità con cui abbracciano chi merita il loro regno.

Camminano a testa alta, senza chiedere permesso, eppure portano nel cuore la capacità di riempire il mondo di amore. Non più l’amore disperato e sacrificato di una crocerossina, ma un amore saldo, rispettoso, eterno: l’amore per se stesse.

Non è odio a renderle austere. Non è rabbia a forgiare la loro corazza. È l’amore più grande che esista, quello che basta da solo e che, quando incontra chi lo merita, si espande fino a illuminare il mondo.

Non sono qui per salvare nessuno. Il mio regno, da oggi, accoglie solo chi merita il mio rispetto.

È da questa scelta, da questa chiarezza di cuore e mente, che nascono le Regine.

Così nasce una Regina.


La vera forza non nasce dalla vendetta, né dalla rabbia, ma dall’amore incondizionato che sai dare a te stessa. Chi diventa Regina non aspetta permessi, non elemosina rispetto, non si piega davanti a chi ferisce: costruisce il proprio regno e decide chi può entrarvi.

Guarda bene: a volte il vero cuore è nascosto nel caos

Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.

(Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry)

Oggi l’ho visto.
Lui, quello che ha deciso di andarsene.
Irremovibile come una porta blindata: non importa quante chiavi inventi, non importa quante volte tu provi a bussare con mani e cuore.

Ha questa sua dinamica di fuga: appena la relazione diventa tridimensionale, lui si appiattisce e scompare.
Dice che ci sono troppe discussioni, come se l’amore fosse un acquario dove l’acqua deve restare sempre limpida e senza correnti.
Dimentica il resto — le cose belle, le cure, le attenzioni — come se fossero fotografie scolorite, e tiene sul comodino solo gli scatti sfocati delle litigate.

Eppure oggi, prima che si chiudesse la porta tra noi per l’ennesima volta, gli ho regalato un quadro.
Era nato in una sera storta, una di quelle in cui la nostalgia ti scava le ossa e ti fa venire voglia di infilare la testa nel passato per sentire ancora il profumo di casa.
Due occhi, uno sguardo profondo. Sullo sfondo, farfalle in volo.
Non era solo pittura: era un promemoria.
La capacità di andare oltre, di vedere il bello anche dove sembra non esserci.
Un invito a ricordarsi che la vita non è meccanicità, non è una sequenza di movimenti perfetti e programmati: è cuore, è emozione, è volo.

Ma mentre lo guardava, ho capito che di quel messaggio non riusciva a vedere che la cornice.
E lì ho realizzato che il problema non era il quadro, e nemmeno noi in senso stretto: era il modo in cui affronta — o meglio, evita — qualsiasi attrito.

La psicologia ha un nome per questa danza: evitamento.
È il movimento tipico di chi teme l’intimità vera, perché sa che l’intimità porta anche frizione, aggiustamenti, compromessi.
Secondo gli studi sull’attaccamento, chi ha uno stile evitante spesso coltiva l’illusione del “se fosse giusto, non dovremmo mai discutere”.
Ma i rapporti sani non sono mai anestetizzati: il conflitto non è un sintomo di fallimento, è un laboratorio dove si modellano due mondi in uno.

Dopo neanche due anni, credo fosse normale non aver ancora preso bene le misure.
Due quarantenni non sono pezzi di puzzle pronti all’incastro perfetto: siamo più simili a rocce di fiume, che hanno bisogno di tempo e acqua per levigarsi.
Lui, invece, sogna un incastro immediato, già smussato in fabbrica.
Ma le persone non si fabbricano: si incontrano, si urtano, si aggiustano.
Sempre che restino.

E così oggi, mentre stringeva quel quadro, ho pensato che forse non lo vedrà mai davvero.
Perché per vedere ci vuole il coraggio di fermarsi, di guardare dentro, di accettare che a volte l’immagine è sfocata, e che il bello lo devi cercare.
Forse, in fondo, quel quadro non era per lui.
Era per me. Per ricordarmi che, anche quando qualcuno decide di non restare, io so ancora volare.

Ma nel mio cuore lascio una piccola fessura, un’apertura fragile ma vera.
Spero che un giorno lui si accorga — davvero — che quella sua fuga, quel muro che ha costruito intorno, lo ha allontanato da troppe cose belle.
Che capisca, con quel lento dolore che arriva solo col tempo, che non ne valeva la pena.
Spero che un giorno senta il richiamo silenzioso di quel mio quadro, o la carezza inattesa di qualche gesto, di qualche parola, che gli ricordi che la felicità non è un’isola solitaria.
Non sarà con me, lo so. E questo fa male, più di quanto avrei mai voluto ammettere.
Ma gli voglio bene — davvero — e ovunque vada, qualunque persona scelga accanto, gli auguro di avere il coraggio di restare.
Di abbassare le difese.
Di lasciarsi finalmente amare.

Riflessioni di una notte in cui ho scelto di restare con me (perché a volte il brindisi va rimandato)

A volte basta una notte qualunque, un po’ di silenzio, e nessuna distrazione all’orizzonte.
Niente messaggi da rileggere, niente playlist malinconiche in sottofondo.
Solo me, i miei pensieri… e quel vecchio vizio di volerci capire qualcosa.
Non ho trovato risposte.
Ma ho trovato me.
E il modo più onesto che conosco per starmi accanto: scrivere.

Ci sono dolori che non lasciano neppure la forza di parlare.
Quelli che ti attraversano come una tempesta, e dopo non sei più la stessa.
Li conosco.
Ci sono passata, senza clamore, senza presunzione.

Ma oggi voglio soffermarmi su un altro tipo di dolore.
Quello che arriva quando una storia d’amore finisce.
E con lei se ne va anche un pezzo della nostra identità, dei nostri riti quotidiani, della nostra idea di futuro.

È di questo che scrivo qui.
È il tema del mio blog.
Il mio piccolo osservatorio emotivo sul cuore umano.
E, come sempre, parto da me.

Ho scritto molto, e spesso senza punteggiatura emotiva, su ciò che mi è frullato nella testa e nel cuore dopo la rottura.
Rottura: che parola delicata per dire “ti lascio, arrangiati”.
Il mio compagno ha fatto i bagagli.
E no, non per portarmi a Parigi.
Né a Bali.
Ha fatto i bagagli per andarsene. Punto.

Mi sono trovata da sola, in salotto, con la tazza della tisana ancora calda e l’anima completamente ghiacciata.
E allora ho fatto quello che molte fanno:
Ho pianto.
Tanto.
Poi ho immaginato il suo ritorno trionfale, tipo una scena hollywoodiana da manuale, con la pioggia, un mazzo di fiori e un discorso da Oscar.
E ho aspettato.
E lui? Niente. Neanche uno “scusa, ho dimenticato il caricabatterie”.

Mi aveva detto:
“Adesso starai male, poi mi odierai, poi ti passerà.”
Il Bignami del dolore romantico.
Manuale d’istruzioni per relazioni usa e getta.
Un vero guru delle emozioni, versione IKEA: tutto schematico, tutto smontabile.

Il cervello umano, forse, lo conosceva anche bene.
Ma il cuore? Quello sembrava averlo lasciato in una vecchia relazione del 2009.

Aveva una collezione di storie sentimentali come certe fashion blogger hanno quella di borse: tutte belle, nessuna davvero necessaria.
E una teoria infallibile:
Stiamo insieme, poi io ti lascio, tu soffri, mi odi, mi dimentichi.
Una catena di montaggio del distacco.
Peccato che io non ho trovato l’ingresso a questa catena.

A me non è mai successo.
Non ho una sfilza di ex da elencare come trofei.
E forse, come diceva lui con aria da saggio zen:
“Devi fare esperienza.”
Peccato che io ho quasi mezza età.
Come lui.
Ma lui evidentemente si sente ancora in fase tirocinio affettivo.

Se crescere significa collezionare una decina di relazioni fallimentari, mi spiace: non mi interessa accumulare bollini per vincere il peluche dell’illuminazione.

Eppure, oggi posso dirlo:
non lo odio.
Non ci riesco.
Non è una parte che mi viene naturale recitare.
Quello che mi viene naturale, invece, è provare dolore.
Dolore vero, nudo, senza filtri.
Dolore misto a incredulità.
Come se mi fossi svegliata su un pianeta sbagliato.
Uno che non è la Terra.
Uno che non ha nemmeno l’opzione “torna a casa”.

E lì, proprio lì, ho capito che davanti al dolore ci sono solo due scelte:

Cadere nella disperazione e lasciarlo vincere.

O Usarlo.

Sì, usarlo.
Perché quando ti si spezzano le viscere e ti ritrovi col cuore in mano, e non è una metafora, ti viene spontaneo chiederti:
Che diavolo me ne faccio adesso di tutta questa sofferenza?
E l’unica risposta sensata che mi è venuta è stata:
la uso.

Uso il dolore per scrivere.
Per danzare dentro i miei pensieri.
Per fare l’unica cosa che può riportarmi a galla: esplorarmi.

E così ho iniziato il mio personale viaggio dantesco.
Senza Virgilio, senza guida turistica.
Ma l’Inferno l’ho trovato.
Altroché.
Ho iniziato da lì. Dal buio. Dal fondo.

Il cammino sarà lungo, e spesso mi sembra di avere le scarpe sbagliate per affrontarlo,
ma l’importante è iniziare a camminare.

Ho preso tutte le mie parti interiori, quelle in lacrime, quelle arrabbiate, quelle che avevano solo voglia di sparire, e le ho messe attorno a un tavolo.
Sedetevi, ho detto. Parlate.
E ho ascoltato. Una per una.
Senza zittire nessuno.
Ho fatto da psicologa, da madre, da giudice imparziale.
Non sapevo neanche di avere tutte quelle voci dentro di me.
Siamo un esercito. Piccolo, ma rumoroso.

E lì ho capito che siamo tutti dotati di risorse straordinarie.
Siamo come macchine con mille optional.
Solo che a volte nessuno ci insegna a usarli.
Li abbiamo chiusi in qualche stanza interiore con l’etichetta “da sistemare”.
Eppure, sono lì.
Pronti.
Intatti.

La sofferenza, a ben guardarla, arriva proprio per questo:
per svegliarci.
Non per distruggerci.
Ma per bussare forte.
A volte con la gentilezza di un pugno.

Ma non sveglia tutti.
Dipende da come scegliamo di rispondere.
Possiamo usarla per inaridire il cuore, chiuderlo, irrigidirlo.
Oppure possiamo lasciarla fiorire, trasformarla in qualcosa di nuovo.
Lui, evidentemente, ha scelto la prima strada.

E sì, se avessi potuto scegliere il Paese dei Balocchi, lo avrei fatto.
Senza esitazione.
Avrei firmato.
Avrei chiesto pure il Wi-Fi.

Ma siamo qui.
Sul pianeta Terra.
Nel caos, nel dolore, nel disordine magnifico delle nostre emozioni.

E allora, cosa possiamo fare?
Scegliere.

Io non ho grandi verità universali da offrire.
Non conosco la mappa del destino, né i segreti del subconscio.
Ma conosco me stessa, un pochino.
E so che ogni volta che ho trasformato il dolore in qualcosa, un gesto, un testo, una risata, ho fatto un passo fuori dall’Inferno.

Create.
Cantate.
Ballate.

Prendete quel dolore, ascoltatelo, ascoltatevi.
E fatene benzina.
Non per dimenticare.
Ma per ricordare chi siete.

Non so se questo vi salverà dal soffrire.
Ma so che ci sono delle strade.
Strade che portano avanti, altrove, o semplicemente più vicino a voi stesse.

E a volte, è tutto ciò che serve.

Con amore,
Elena


Morale della favola?
Il dolore non si evita, il vino finisce, e le valigie a volte se le portano davvero via.
Ma restare con sé stesse, anche solo per una notte, può essere l’inizio di una storia d’amore che non si lascia più.


The moral of the story?
You can’t avoid the pain, the wine runs out, and sometimes they really do take the bags with them.
But staying with yourself, even if just for one night, can be the beginning of a love story that never lets go.

Self-love, incensi e deliri notturni: la guida per sopravvivere a te stessa (o almeno provarci)

Ci dicono continuamente di amarci.
Di amarci prima, amarci meglio, amarci sempre.

L’amore per se stesse è diventato una specie di must,
una parola d’ordine da ripetere come un mantra davanti allo specchio,
tra un sorso di centrifuga verde e una maschera detox.

Ce lo insegnano i libri, i podcast, le storie su Instagram
che si alternano a foto di gatti, tramonti e frasi motivate su uno sfondo beige.

“Ama te stessa.”
“Sei abbastanza.”
“Nessuno può darti ciò che non ti dai da sola.”

E allora ci proviamo.
Amati profondamente.
Amati prima di amare gli altri.
Come brave allieve della nuova scuola del benessere emotivo.

Amati mentre lavi i piatti,
mentre fai yoga con le braccia tremanti,
mentre ascolti podcast di donne che si sono ritrovate dentro un ritiro spirituale in Toscana.

E ok, ci sto.
Sul serio.
Ma a volte, anche con tutta la mia buona volontà,
anche dopo essermi fatta lo scrub corpo
e aver ripetuto “self-love is my birthright” per tre minuti davanti allo specchio

mi viene solo da guardare la luna e chiedermi:
“C’è qualcuno, da qualche parte, che mi sta pensando con amore?”

E non intendo pensare tipo “Sarà viva?”,
ma proprio con amore.
Quel pensiero che ti fa sentire meno sola anche se sei sul divano con una coperta
e Netflix che ti chiede per la terza volta se stai ancora guardando.

Facciamo yoga,
ascoltiamo playlist che si chiamano “self love vibes”,
ci regaliamo giornate detox con la scritta “me time” evidenziata sul calendario.

A volte ci concediamo quei piccoli rituali
che sembrano scritti in una sceneggiatura romantica:
un bagno caldo con sali rosa dell’Himalaya,
l’incenso al sandalo acceso con la cura di un rito giapponese,
jazz francese in sottofondo,
luce soffusa e il telefono lontano, lontanissimo.

Eppure, anche in quel momento perfetto,
in quell’istantanea da rivista, può arrivare la fitta.

Quella fessura nell’anima che ci ricorda che sì,
è bello amarci,
ma è anche bello — immensamente bello — sapere che qualcuno, da qualche parte, ci sta pensando.

Magari non lo ammettiamo.
Magari lo nascondiamo sotto pile di mindfulness,
meditazione,
obiettivi di carriera e solitudini ben organizzate.

Ma la verità è che, sotto tutto,
in fondo al fondo,
resta quel desiderio antico:
sentirci amati.

Non necessariamente da un partner,
ma da qualcuno.
Sentire che siamo nella testa e nel cuore di qualcun altro.
Che siamo abbastanza importanti da occupare uno spazio in una giornata.
Che ci sia qualcuno che guarda la luna nello stesso momento e, anche solo per un attimo, pensa:
“Chissà come sta.”

E in quel pensiero ci sentiamo più forti.
Più leggere.
Più vive.

Perché amarsi è bellissimo,
ma sapere che qualcuno, da qualche parte, ti ha pensata…
beh, quella roba lì ti rianima anche il cuore più chiuso.
Ti rimette in moto.

Come girelle impazzite al primo colpo di vento,
vorticose e colorate,
con l’energia esplosiva di chi si sente visto, scelto, considerato.

Abbiamo provato a sostituire questo bisogno con mille attività.

C’è chi si butta a capofitto nel lavoro,
chi diventa la regina degli hobby creativi,
chi si allena compulsivamente,
chi cura le piante come fossero neonati.

Altri si rifugiano nei figli,
amandoli con una dedizione così totale
da dimenticare perfino di passarsi il filo interdentale prima di dormire.

Altri ancora riversano tutto l’amore possibile sugli animali,
parlando con il cane: “Giornata lunga anche per te, eh?”
Che poverino ci guarda mentre gli spieghiamo i nostri traumi familiari
e noi lo umanizziamo così tanto da chiedergli se anche lui si sente trascurato.

Cerchiamo sbocchi, direzioni, contenitori dove versare l’amore che ci esplode dentro.
Perché sì, ne abbiamo tanto.
Ne abbiamo da vendere.
Abbiamo così tanto amore dentro che non sappiamo dove metterlo.

Un altro aspetto di cui nessuno parla abbastanza:
quanto amore abbiamo dentro da dare.

Siamo pieni.
Colmi.
Strabordanti.

E quando non troviamo dove metterlo,
quell’amore cerca una via d’uscita.

Allora lo diamo ai figli.
Li sommergiamo di attenzioni, affetto, zucchero e ansie.
Oppure lo diamo ai nostri animali domestici, umanizzandoli fino all’esaurimento:
parliamo con loro, chiediamo consigli, pretendiamo empatia.

Altri lo versano nel lavoro,
con dedizione e fuoco,
sperando che il successo restituisca almeno un po’ di calore.

E poi ci sono quelli che amano a caso. A tentoni.
Che buttano amore nel mondo sperando che qualcosa torni indietro.
Anche solo un messaggio, una canzone, uno sguardo.

Perché non ce la facciamo a tenere tutto dentro.
L’amore è una valigia senza chiusura.
La portiamo sempre dietro strapiena di sentimenti:
rossa, scomoda, traboccante, con la zip che cede,
e ogni tanto ci scappa qualcosa fuori: una lacrima, un pensiero, un bisogno.

E mi sono chiesta:
ma non sarà che il vero atto d’amore è lasciarsi amare?

Fidarsi.
Aprirsi.
Dire “ok, entra pure”,
anche con tutte le paure del caso.

Forse l’amor proprio è solo il punto di partenza.
Serve.
È fondamentale.
È la base.

Ma il salto, quello che ti fa sentire viva, piena, intera,
succede quando capisci che puoi essere amata davvero.
Senza performance.
Senza filtri.
Solo perché sei tu.
Esattamente così.

E allora ho pensato che forse non dobbiamo per forza bastarci.
Che non è un fallimento sentire il bisogno di qualcuno.
Che non è una debolezza chiedere di essere amati.

Magari è solo umanità.

Abbiamo riversato fiumi di emozioni nei libri,
nei film,
nella musica.

Abbiamo scritto romanzi, saggi, poesie, diari segreti, lettere d’amore mai spedite.

Platone ci ha raccontato, nel Simposio, che siamo anime divise,
e che amiamo per ricomporci.
Freud ci ha spiegato che l’amore nasce dalla mancanza.
Erich Fromm, in L’arte di amare, ci ha insegnato che l’amore è un atto di volontà,
non un colpo di fortuna.
E bell hooks ha scritto che l’amore non è un sentimento: è un’azione.
Un impegno.

Abbiamo letto tutto.
Abbiamo sottolineato.
Abbiamo anche fatto i compiti a casa.

Eppure eccoci qui.
Davanti alla luna,
ancora con quella domanda in sospeso sulle labbra.

Perché il punto è questo:
sentirsi amati è una rivoluzione silenziosa.

Da Platone a Fromm, da Sartre a bell hooks,
l’amore è sempre stato indagato, sezionato, messo sotto la lente.

È desiderio.
È mancanza.
È fusione.
È rispecchiamento.
È abisso e salvezza.
È il nostro specchio più feroce.

Eppure non ci stanchiamo mai di raccontarlo.

Il cinema, poi, ci ha cresciute a colpi di baci sotto la pioggia e messaggi scritti a mano.
Ci ha fatto piangere con Titanic,
sperare con Notting Hill,
illuderci con La La Land,
sognare con Before Sunrise,
ridere con Harry ti presento Sally.

L’amore è ovunque, ci dicono.
Ed è vero.

È nei piccoli gesti.
Nei silenzi che parlano.
Nelle attese.

È in quella lettera che arriva dopo mesi,
che leggiamo sedute sul letto con il cuore che batte come quello di una ragazzina al suo primo appuntamento.

È in un buongiorno ricevuto mentre si è in pigiama e con i capelli disordinati,
eppure si sente di avere qualcosa da offrire al mondo.

Ma poi, quando ci fermiamo, davvero,
e torniamo dentro di noi,
ci accorgiamo che, nonostante tutta la letteratura,
tutta la filosofia,
tutta la psicologia,
una sola domanda resta intatta nel cuore:
c’è qualcuno che mi ama?

Non nel senso romantico da film smielato,
ma in quel modo radicale in cui qualcuno ci vede davvero,
ci sente,
ci considera.

Perché è in quel momento che ci sentiamo parte.
Che ci sentiamo al centro di qualcosa,
anche solo per pochi istanti.

E quei pochi istanti bastano a farci girare, vibrare, vivere.

Ho conosciuto persone che hanno trasformato la loro assenza d’amore in carburante.
Hanno fatto carriera.
Hanno creato imperi.
Hanno decorato le loro case con una cura maniacale,
come se potessero trasformare il vuoto in bellezza.

Eppure bastava poco per farli crollare:
un silenzio,
una porta chiusa,
una sera in cui nessuno chiedeva “Come stai davvero?”.

Non sono un’ esperta d’amore.
E di certo non sono la persona giusta per dispensare consigli relazionali.

La mia vita sentimentale ha più disastri della filmografia di Woody Allen,
eppure qualcosa l’ho capito.

Quando qualcuno ci ama, davvero,
qualcosa in noi si riaccende.

E se quell’amore viene a mancare,
si spegne una luce.

Forse non del tutto.
Ma quel piccolo interruttore in fondo allo stomaco,
quello che ci fa brillare,
si offusca.

La vita continua, certo.
Ma ha meno sapore.

È come mangiare pasta in bianco
quando sai che in frigo c’era il ragù.

Basta una persona.
Una sola, che ci veda,
ci pensi,
ci scelga.

Ci possiamo riempire di incensi,
di sali,
di libri
e di frasi ispirate,
ma il cuore chiede una sola cosa:
essere riconosciuto.

Visto.
Amato.
Anche solo per un attimo.

Perché quando qualcuno ci ama,
anche il bagno con le candele diventa un rito sacro,
e anche la solitudine si trasforma in spazio sacro.

E allora sì, continuiamo ad amarci.
Ma smettiamola di farlo con la pretesa che ci basti per sempre.

Perché forse, l’amor proprio non è altro che prepararsi bene,
con oli, incensi e musica dolce,
per essere pronti,
quando l’amore vero bussa.

E accoglierlo.
E dirgli: “benvenuto, finalmente”.